Alla fine la tanto attesa visita di Francesco in terra ambrosiana si è consumata. Poco più di 11 ore che hanno fatto sospirare a lungo i milanesi che lo volevano già tra i futuristici padiglioni dell’Expo, e in seguito hanno dovuto ingoiare il rospo di un’inevitabile rimando post giubilare. Vengo qui in mezzo a voi come sacerdote. Lo ha detto oggi (ieri, ndr), quando ha fatto il suo ingresso nella città meneghina alla sua maniera. Dalla periferia, sorprendentemente a suo agio tra i casermoni targati anni 70, la gente semplice a cui la sfida di arrivare alla fine del mese si legge addosso, con i bambini che crescono in fretta in strade senz’anima e palazzi bucati da finestre con mille occhi.
E’ arrivato e si è lasciato toccare, perché a questa gente per fidarsi basta un contatto, la certezza di una presenza. Sono anziani, famiglie, stranieri. Qualcuno non ha il lavoro, altri lo hanno perso da poco, altri ancora non l’hanno mai cercato. E’ il territorio dei rapper e anche dei clan. Sono rom e gente da case popolari, che all’emarginazione hanno fatto il callo. E il Papa arriva e sale gli ascensori che funzionano a scatti e bussa alle loro porte. Come un parroco, anzi come fa il bravo parroco di Case bianche, don Augusto Bonora, a capo di una parrocchia che è un presidio nel nulla della socialità.
Francesco va a trovare una famiglia dove le donne di casa portano lo chador, si vede offrire i datteri e un bicchiere di latte con il servizio buono, accetta di fare un selfie con la figlia maggiore che il Marocco forse non lo ha mai visto ma ha una cadenza che neanche Enzo Jannacci. E poi nell’appartamento 32, dove la salute ha tirato un brutto scherzo alla vecchietta di 81 anni che stava per vivere il sogno di una vita, prende il telefono e la chiama in ospedale, raccomandandole di stare attenta agli acciacchi. E non basta: finite le visite, come molti degli 8mila che lo attendevano sul piazzale, si ferma ad un bagno chimico, perché si sa, dopo un po’ scappa.
Vengo qui in mezzo a voi come sacerdote. Vale a dire, sono qui per volervi bene, accompagnarvi, ascoltarvi. Come fa un parroco la cui esistenza è “tessuta” dalla gente, dalle sue fatiche, le sue preghiere, le sue lacrime. E’ il filo rosso di questa giornata milanese. Il Papa sacerdote. Quello che non viene a tenere comizi, a mostrare una fede muscolosa, a seminare certezze, ma il Papa che accompagna, si prende cura, accarezza.
Dalla periferia al centro, dalla frontiera al cuore di Milano. Francesco non cambia. Entra nel Duomo e striglia una chiesa che è tentata più che dalla tristezza o dalla rassegnazione, dall’ansia di prestazione. Sembra dire godetevela. Che il Vangelo è gioia. Anzi di più: allegria. Evangelizzare non è sinonimo di prendere pesci, spiega come farebbe un buon prete di campagna, e non abbiate paura delle sfide, che salvano da un pensiero chiuso e definito per far crescere.
Ne ha una per tutti: ai diaconi dice di non incartarsi nel clericalismo e alla religiose di non lasciarsi tentare dall’accidia. Ritornare alla Galilea è il messaggio finale sotto le guglie: al primo fascinoso incontro, al Gesù che predica e incanta, che moltiplica i pani e cammina sulle acque. Al Maestro e alla sua banda di amici.
E poi il Papa sacerdote varca i cancelli di San Vittore. Perché un buon prete non può non visitare i reclusi. Anzi i peggiori tra di loro. Entra anche nel VI raggio, tra gli “infami”, quelli che persino gli altri detenuti schifano. E li abbraccia uno ad uno. Perché venire da sacerdote vuol dire elargire la Misericordia di Dio a piene mani. Non c’è differenza che parli al peccatore in gabbia o al milione di brava gente che ha camminato per chilometri nel Parco di Monza illuminato del sole, Francesco rimane sacerdote dell’amore, elargitore di tenerezza, in grado di comprendere “il dolore che bussa alle porte” degli uomini di oggi e denunciare chi specula su lavoro, famiglia, poveri e migranti, riducendo tutto in cifre. O chi ha calpestato la laboriosità ambrosiana, inquinandola con ambizioni sregolate.
I suoi consigli a una città che corre veloce parlano di lasciare il tempo a Dio. Per operare l’impossibile. Come a un sacerdote amico, se lo avessi incontrato alla fine della giornata, gli avrei parlato del sole improvviso e miracoloso, del profumo dell’erba cipollina durante i 40 minuti di cammino dentro il parco più grande d’Europa, della compostezza dei padri con i figli agganciati sulla schiena e delle mamme con i passeggini colmi di vita, degli anziani contenti e della fatica di corrergli appresso attraverso una città blindata e impaurita, della mia caviglia, dolorante per una storta. Lui, mi piace pensare, sorriderebbe, per concludere “E’ stata una bella giornata”.