Qualche sera fa – al meeting periodico del Circolo del Sussidiario – il presidente di FederlegnoArredo, Roberto Snaidero, è intervenuto per salutare il guest speaker, il presidente della Fondazione Italia-Cina, Cesare Romiti. Entrambi saranno protagonisti di una settimana di fuoco per il Made in Italy.
Snaidero, da domani, sarà il padrone di casa del 54° Salone del mobile. Un evento che si preannuncia da record: 350mila visitatori attesi da 160 paesi (cioè, letteralmente, da tutto il mondo); Milano sanamente paralizzata attorno al Salone a dieci giorni dall’apertura dell’Expo; il premier Renzi atteso domani in Fiera per l’inaugurazione nella grande metropoli del Nord che, dopo un anno, deve in fondo ancora conquistare. Romiti sarà invece chiamato – giovedì a Roma – a dare lo start a un importante forum italo-cinese, assieme all’Ambasciatore di Pechino Lu Ruiyu e al presidente dell’Ice, Riccardo Monti: la Bank of China ha organizzato una giornata di brainstorming sul futuro del renmimbi come facilitatore valutario degli scambi fra i due paesi (fra gli scambi strategici dall’Italia in direzione della Cina, dal 2016 vi sarà un’edizione internazionale dello stesso Salone del Mobile).
Alla serata del Circolo il tema-guida – probabilmente di entrambi gli eventi – è stato comunque posto e discusso in anticipo. “Il sistema-Cina è compratore di marchi affermati sul mercato, che in Italia abbondano – ha detto Romiti ai molti imprenditori e professionisti presenti – ed è disposto a investire seriamente, come ha confermato la recente operazione Pirelli e gli ingressi con quote stabili in colossi come Eni, Enel, Generali, Fiat e Prysmian”.
Quanti operatori cinesi (ma non solo) si aggireranno ora fra gli stand del Salone – e poi per sei mesi nella città dell’Expo – a caccia di marchi grandi e piccoli del Made in Italy dell’arredo? Quanti approfitteranno di una sosta a Milano per sondare un’azienda italiana non per una fornitura o per una partnership commerciale, ma per possibili operazioni sul capitale? Quanti altri fondi globali di private equity – iperliquidi sia in dollari che in euro e assetati di rendimenti sui mercati “a tassi zero” – hanno acceso i fari su un’Azienda-Italia povera di Pil ma ancora ricca di brand e di know how industriali? Quanti imprenditori italiani – messi alla prova dalla recessione più lunga – potrebbero essere attratti da proposte finanziarie di sicuro interesse? Ci sono alternative alla cessione pura e semplice di aziende e marchi? E qual è il livello d’attenzione dei centri di politica industriale italiana?
Poco prima di Pasqua l’Azienda-Italia ha in ogni caso lanciato un importante segnale in controtendenza. La fusione fra i gruppi Boffi e De Padova – nel segmento delle cucine – si è presentata come un’operazione per molti versi modello: due gruppi industriali hanno messo assieme le forze, senza fuoriuscite di capitali, imprenditorialità, marchi e conoscenze; semmai con la scommessa di generare nuovo valore in un nuovo concern aziendale.
Romiti, dal canto suo, non ha spaventato gli amici del Sussidiario sulla compatibilità di investimenti cinesi in aziende italiane: lo ha detto sulla scorta della sua esperienza personale di capo-azienda di una Fiat a suo tempo in crisi e bisognosa di investimenti libici. Certo, ha lamentato, in Italia oggi manca una politica industriale: non più dirigistica, ma comunque attenta agli interessi collettivi dell’Azienda-Paese. E su questo terreno che Renzi sbaglierebbe se domani pensasse di cavarsela con una pacca sulle spalle e un paio di battute a effetto con gli imprenditori del mobile. Sia quelli che decidono di fondersi per crescere, sia quelli ancora indecisi di fronte a un’offerta estera meritano almeno 5 minuti di vera politica industriale.