La crescita dei flussi migratori ha riportato in Italia malattie che sembravano scomparse. Una di queste è la tubercolosi, per la quale nel nostro Paese non si effettua nemmeno più il test con regolarità da circa trent’anni. Ma che, invece, a livello mondiale, resta una delle malattie infettive più frequenti e più gravi, con 9,4 milioni di nuovi casi, secondo i dati del 2008 dell’Organizzazione mondiale della sanità. In realtà già a maggio dell’anno scorso il Ministero della Salute aveva diffuso a Regioni e Province Autonome le raccomandazioni per il controllo della tubercolosi tra gli immigrati tratte dal documento finale della “Consensus Conference su Tbc e immigrazione”, che era stata organizzata addirittura due anni prima, nel 2008, a Roma dalla Società italiana di medicina delle migrazioni (collegata alla Caritas).
Di recente la tubercolosi ha fatto notizia a Milano, perché non è stata riscontrata più solo in alcuni stranieri, ma si è manifestata in alcuni bambini frequentanti una scuola elementare. Una “novità” che ha ovviamente preoccupato molti. “La tbc è una malattia seria, ma dalla quale, almeno in Italia, si può guarire”. A dirlo è Marino Faccini, responsabile malattie infettive Asl di Milano, che spiega a IlSussidiario.net come la si può conoscere e combattere: “Innanzitutto, responsabile della tubercolosi è un batterio (non un virus) chiamato Mycobacterium tuberculosis (o bacillo di Koch, dal nome del medico tedesco che la scoprì nel 1882, ndr), che entra nel corpo dalle vie respiratore e di solito va nei polmoni. Gli anticorpi generalmente riescono a debellarlo. Se invece si sviluppa l’infezione, ciò accade in circa due mesi e durante questo periodo chi la contrae non è contagioso”. Ci possono essere poi due sviluppi: “Il bacillo rimane nel corpo anche tutta la vita, ma senza sintomi e senza essere contagiosi”, continua Faccini, “oppure si sviluppa la malattia, soprattutto quando le difese immunitarie si abbassano. A quel punto si diventa contagiosi”.
La tubercolosi può essere polmonare o extrapolmonare (colpire i reni o le ossa, ad esempio). “In quest’ultimo caso non è contagiosa”, precisa Faccini. Nonostante la malattia sia assente da parecchi anni dall’Italia, i sintomi sono ancora noti perché esiste ancora qualche “nonno” che l’ha contratta. All’inizio non si distinguono da quelli, ad esempio, di una normale influenza: tosse, febbre, inappetenza. “Il dubbio deve venire se non vanno via dopo parecchi giorni e nonostante l’assunzione di antipiretici o antibiotici”, spiega Faccini.
Come si “prende” la tbc? Dalle secrezioni respiratore (tosse, starnuti) o dalle goccioline di saliva infette di un malato. Il rischio di contagio è più elevato per chi sta vicino al malato per molto tempo. “In linea generale i bambini sono meno contagiosi rispetto agli adulti”, rassicura Faccini “e poiché i casi conclamati riguardano bambini piccoli, è evidente che sono stati contagiati di recente”.
L’obiettivo dei medici dell’Asl di Milano oggi è quello di trovare la fonte di contagio. “Dietro consenso dei genitori abbiamo innanzitutto effettuato il test tubercolinico (o Mantoux) nelle scuole interessate, che consiste in una piccola puntura sul braccio. I risultati, consegnati dopo 48-72 ore a ogni famiglia, hanno fatto riscontrare, in alcuni casi, delle positività”. Chi è risultato positivo al test è stato poi invitato, caso per caso, a effettuare una radiografia del torace a Villa Marelli (centro specializzato dell’Ospedale di Niguarda di Milano) e forse dovrà assumere, per qualche mese, un farmaco preventivo che verrà indicato, se necessario. Forse, perché, spiega ancora Faccini, “la tubercolosi è una malattia infettiva molto complessa e può svilupparsi in modo diverso da persona a persona. Il test, comunque, è innocuo e il farmaco è molto tollerato”.
Solitamente poi si effettua un richiamo del test dopo due mesi, cosa che è già avvenuta nella Scuola Leonardo da Vinci, dove sono partiti i primi casi. Dimentichiamoci però i sanatori di inizio ‘900. La terapia, per chi risulta malato, normalmente consiste nell’assunzione di un’associazione di farmaci: rifampicina, isoniazide, e pirazinamide per 6 mesi, in combinazione con etambutolo o streptomicina, che nei primi 2 mesi ha dimostrato di ottenere tassi di guarigione maggiori del 95%. Dunque un trattamento lungo, ma sicuro. E non è detto che sia necessario il ricovero. Anzi, dopo un primo ciclo è possibile anche tornare alle normali attività. Spaventarsi è lecito, ma guarire, nelle buone condizioni igienico-sanitarie italiane, è altrettanto certo. E perciò è anche inutile dare la caccia ad eventuali “untori”. “Dobbiamo sempre ricordarci”, sottolinea a proposito Faccini, “che la malattia non è un castigo e perciò nessuno ne ha colpa”.