I segnali in arrivo dall’economia europea sono più deboli di quanto previsto e sperato. La conferma è arrivata ieri dai dati Pmi (Purchase Manager’s Index) che misurano le intenzioni di acquisto dei direttori d’impresa, uno degli indicatori tempestivi e più seguiti dai mercati. Il dato di aprile segnala una seppur non forte frenata da quota 54,2 di marzo a 53,7. Una variazione modesta, comunque ben sopra quota 50 che segna il confine tra crescita e stagnazione, e che lascia prevedere un consolante +0,4% di crescita del Pil del Vecchio Continente nel secondo trimestre. Ma Chris Williamson, il capo economista di Markit, l’istituto che cura l’indagine, è lapidario: “Il risultato è molto deludente, la spinta del Qe non è servita finora ad assicurare la crescita che ci aspettavamo”. Replica Benoit Coeuré, membro del direttorio della Bce: “Il nostro compito è di creare un ambiente finanziario più favorevole. E ci stiamo riuscendo. Ma per ripartire occorrono piani di investimento e imprese stimolate a muoversi. E questo tocca ai governi, mica a noi”.
Il quadro, da questo punto di vista, non è certo confortante.
1) Le note più negative arrivano dalla Francia, in evidente affanno nonostante un rapporto deficit/Pil largamente superiore all’asticella del 3%. Nonostante la spinta della spesa pubblica e l’apporto del Quantitative easing, la locomotiva francese perde colpi: da 51,5 a 50,2, un passo sopra la contrazione dell’economia. Per Williamson, “la frenata riflette un malessere radicato, che arriva da lontano: dopo una momentanea ripresa di inizio anno, la spinta si è andata indebolendo a fronte dei nodi strutturali del Paese”. È Parigi, ancor più di Atene, la fonte delle preoccupazioni della Germania. Se la Francia adottasse le riforme necessarie con lo stesso piglio della Spagna, ha detto il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble facendo infuriare Parigi, la ripresa francese sarebbe questione di mesi. Ma il Paese non sembra maturo.
2) Anche la Germania, però, viaggia a un tasso inferiore alle previsioni. Eppure le condizioni sembrano ideali. È difficile immaginare un contesto migliore per la locomotiva d’Europa: euro e petrolio bassi, tassi di interesse negativi. Eppure, come dimostra la discesa dell’indice di fiducia Zew, l’umore dei manager delle imprese tedesche volge al grigio pallido. Certo, altri indicatori sono più positivi: la fiducia dei consumatori tedeschi segna un massimo di 13 anni e mezzo, grazie alle attese per un aumento dei redditi. Ma, avverte l’istituto di statistica tedesco, la continua incertezza sulla Grecia intacca la volontà di spendere. Sembra assurdo tirare in ballo la minuscola economia greca, ma la Germania è il Paese che più di tutti ha investito sull’euro ed è consapevole che una rottura con Atene avrebbe conseguenze gravi sia nel breve (comunque superabili con uno sforzo finanziario notevole per evitare il collasso dell’economia di Atene) che nel medio-lungo periodo. Alla fine del Qe o al primo segno di affievolimento del ciclo europeo, i mercati inizierebbero infatti a speculare sulla prossima vittima. Di qui la scelta di frau Merkel di evitare un braccio di ferro comunque dannoso. La Grecia, probabilmente, verrà mantenuta in vita con sussidi modesti e prestiti che serviranno a ripagare altri prestiti. Il debito greco verso l’Europa può essere costantemente rifinanziato dall’Europa stessa.
3) Scongiurato il fantasma greco, però, resteranno gli altri problemi. Il Qe finora ha fatto bene alle economie della cosiddetta periferia. Italia compresa. Per la prima volta dopo tre anni e mezzo la prospettiva della ripresa sembra solida. Concorda Jean-Michel Six, capo economista per l’Europa di Standard & Poor’s: “Siamo in una situazione in cui la crescita è tornata a essere possibile. L’Italia non cresce da tre anni e mezzo, e finalmente nel 2015 potremo rivedere un po’ di crescita, che accelererà nel 2016”. Ma aggiunge subito: “La maggior parte di questa opportunità è legata a fattori esterni, ovvero l’euro debole e la discesa dei prezzi del greggio: sono buone notizie, ma si tratta elementi temporanei”. Insomma, non illudiamoci: il più resta da fare. Del resto, nonostante la somma di questi fattori positivi, la crescita del primo trimestre è stata dello 0,1% molto inferiore a quella degli altri paesi dell’eurozona. E, nonostante le note positive, (riduzione del cuneo fiscale a favore di famiglie e imprese e introduzione del Jobs Act), sul fronte dell’economia il più resta da fare: il debito pubblico continua la sua corsa (5 miliardi al mese) senza inversione di tendenza in vista; il pareggio di bilancio viene spostato da un anno all’altro e la bomba dell’aumento dell’Iva è ancora da disinnescare.