Metti un sabato a pranzo, uno spiedo con alcuni dei principali industriali bresciani, ed ecco il polso reale di chi oggi, ottobre 2012, a circa cinquanta mesi dall’inizio della crisi, sta continuando con coraggio a fare impresa. Meglio di mille analisi e convegni. A tavola il dialogo è immediato e diretto. Riporto alcuni spunti emersi, dove si può cogliere la passione di chi non si è rassegnato di fronte alle difficoltà e non ha tirato i remi in barca.
Le preoccupazioni comuni a tutti i convitati sono, oltre all’eccessiva tassazione, la troppa burocrazia e il venir meno della certezza del diritto. Di fronte a tale situazione preoccupa molto ed è motivo di sfiducia una politica che non ha più capacità di incidere in modo significativo sui processi decisionali. Chiunque governi è condizionato dal potere dei burocrati. Questi – sottolineava di recente Ernesto Galli Della Loggia – “dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere”. Oggi agli apparati burocratici italiani si sono aggiunti quelli europei e gestire il rapporto con loro è diventato un vero e proprio percorso a ostacoli.
Insieme a questo stato di cose noto e risaputo, di fronte al quale ci si sente sempre più impotenti, è stata minata la certezza del diritto. È la percezione diffusa quando si pensa alla contraddittorietà di certe norme o addirittura alla loro efficacia retroattiva. Specie in materia fiscale. Ci si riempie la bocca con discorsi sulla legalità, ma questa non riguarda solo le condotte criminali, deve anche contemplare un rapporto più agevole e costruttivo fra lo Stato, i cittadini e le imprese. È paradossale: chi fa, chi intraprende, chi rischia e si mette in gioco è guardato sempre con un inizio di sospetto. E questo purtroppo è diventato anche clima sociale. Gli stessi mezzi di informazione tendono spesso a mettere sotto osservazione chi cerca di fare, quasi per coglierlo in fallo, anziché valorizzarne i tentativi e le iniziative.
Parlando con gli imprenditori, a prevalere comunque non è mai il lamento sterile o risentito oggi diffuso e generalizzato in ampi strati della popolazione, ma il desiderio che venga riconosciuta dignità al loro operare. Invece è come se questo non avesse cittadinanza e dovesse essere preventivamente e continuamente autorizzato. La creatività, la capacità di creare lavoro, di far crescere un’impresa anziché essere un valore, un fattore di positività da stimolare, sembra più spesso un problema da gestire. Eppure basterebbe osservare la storia di tante aziende e ci sarebbe molto da imparare.
Ricordava di recente il professor Giuseppe Bertagna come la spina dorsale dell’industria bresciana (ma l’esempio si potrebbe estendere a molte altre aree del paese) nel dopoguerra sia stata, in parte significativa, formata da persone estromesse dalla scuola che hanno investito intelligenza ed energie nel lavoro: tecnici, imprenditori, operai specializzati, artigiani, che sono diventati i primi propulsori dell’economia locale e con essa della crescita della società. Allora trovarono terreno fertile. C’era una simpatia di fondo nei loro confronti nonostante la durezza delle condizioni. Oggi la questione si ripropone. Ci sono migliaia di giovani che si trascinano in percorsi scolastici senza prospettive. È il momento in cui serve il coraggio di sperimentare nuove iniziative che partano dal lavoro e dalla capacità di fare. Auspicando che non ci siano zelanti burocrati a impedirlo.