Il rapporto deficit/Pil dell’Italia è sceso nel 2011 dal 3,9% al 2,9%. Il dato, contenuto nel documento previsionale della Commissione europea illustrato dal commissario agli Affari Monetari Ollie Rehn, getta una luce inquietante sui risultati della strategia anti-debito del Vecchio Continente. Non è il caso di ricordare lo sforzo compiuto dai contribuenti italiani per cercare di colmare le casse vuote dello Stato piuttosto che per rimpinguare il saldo positivo del fabbisogno primario. O il prezzo pagato in termini di recessione economica, destinata a protrarsi per almeno metà del 2013. Fa impressione, però, verificare che questi sforzi sono serviti ad abbassare di un punto solo gli squilibri dei conti pubblici, senza incidere tra l’altro sul passivo patrimoniale che continua a viaggiare largamente al di sopra del 120% sul Prodotto interno lordo.
L’Italia, del resto, non è certo l’unico Paese a trovarsi in queste condizioni. Anzi, la Spagna sta assai peggio: nel 2013 il debito di Madrid salirà al 6% contro una previsione, concordata con i saggi di Bruxelles solo quattro mesi fa, del 4,5%. Peggio ancora, senza un cambio di passo della politica economica il deficit 2014 rischia di esplodere al 6,4%, rispetto al 2,8% previsto dai “saggi” della Commissione. Il tutto alla luce delle ultime proiezioni del Pil: -1,4% per i prossimi due anni. Stima prudente ma, alla luce di quel che sta succedendo, forse troppo ottimistica.
Si capisce, di fronte a questi dati, la ritrosia di Mariano Rajoy a chiedere l’intervento degli Omt (gli acquisti dei titoli grazie ai fondi europei sotto la regia Bce), subordinato alla “severa condizionalità” di Bruxelles: di questo passo, la stabilità sociale e la convivenza civile sono messi seriamente a rischio. Come già accade ad Atene, ove l’ultimo pacchetto austerità è stato votato in un Parlamento assediato da una folla inferocita.
In questo quadro, è il ragionamento di Madrid, la politica del basso costo del denaro ribadita ieri dalla Bce è una terapia necessaria, ma da sola non efficace. E la stessa promessa di intervento a sostegno della liquidità, in assenza di una politica attiva, che favorisca il recupero della produttività, serve solo a guadagnare tempo. Per carità, non è in discussione la necessità per la vecchia Europa di accelerare un processo di radicale dimagrimento dei costi pubblici e una revisione altrettanto drastica del welfare che va mirato verso le fasce di popolazione più deboli. Ma l’uscita dalla crisi richiede qualcosa di più.
C’è da domandarsi se l’Europa non stia sacrificando il proprio futuro sull’altare delle certezze degli economisti più ortodossi di teutonico pensiero. Georges Clemenceau, di fronte al massacro inutile di Verdun, in cui centinaia di migliaia di soldati vennero mandati al macello per fiaccare la resistenza del nemico, proclamò che “la guerra è troppo seria per farla fare ai generali”. Lo stesso, visti i risultati, si potrebbe sostenere di certi economisti, arroccati sulla necessità di annientare il virus del debito. Quasi che proprio il debito non fosse la manifestazione di una debolezza congenita da affrontare con medicine ricostituenti. E così la medicina del rigore, lungi dal risultate un buon tonico per Grecia, Spagna, Portogallo o Italia, ha favorito il contagio della Francia e del Belgio, e minaccia da vicino la stessa Germania, economia certo “aperta e integrata”, come tiene a sottolineare il presidente della Bce Mario Draghi, ma che non può fare affidamento solo sull’export verso la Cina, meno ricettiva che in passato, o gli Stati Uniti.
La contestazione della ricetta tedesca non è certo una novità. Da anni gli economisti Usa più vicini ai democratici, da Paul Krugman a Lawrence Summers, sostengono fino alla noia che l’Europa, oltre al “big bazooka” messo in atto da Mario Draghi, ha bisogno di una politica fiscale espansiva. L’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale, coordinato da Olivier Blanchard, è un implacabile atto d’accusa contro i disastri accumulati dai fautori dell’austerità, fin dai tempi in cui i conservatori inglesi cercarono di rimettere sotto controllo il debito pubblico dopo la Prima Guerra Mondiale: nel 1938, dopo vent’anni di politica del rigore,il rapporto debito/Pil era salito dal 130% al 170%.
Di fronte a queste punture di spillo la reazione tedesca è sempre stata di stizza, se non di aperto fastidio. Ma qualche segnale indica che si stanno aprendo le prime crepe nel muro d Berlino. Niente di clamoroso, per carità. Però il Financial Times nota segnali di novità nell’atteggiamento di Ollie Rehn, il commissario finlandese che interpreta il ruolo di guardiano dei conti pubblici, una figura che la Germania vorrebbe promossa al rango di supercommissario con potere di veto sui bilanci degli Stati membri. Il copione è, in parte cambiato. Fino a un anno fa, Rehn interveniva per richiamare l’Italia al rispetto degli impegni. Poi, con un rituale che prosegue ancor oggi, il mantra ripetuto fino alla noia riguarda “l’apprezzamento per gli sforzi dell’Italia che dovranno proseguire anche l’anno prossimo”. Ma stavolta Rehn si è detto soprattutto “preoccupato dalla lunga recessione italiana”. Lo stesso commissario finlandese (la roccaforte del rigore) ha tenuto a precisare che “è in corso un proficuo scambio di opinioni con gli analisti del Fondo monetario: siamo d’accordo che non è sufficiente guardare solo ai risultati quantitativi, ma anche agli effetti degli interventi sulla fiducia degli attori economici”.
Insomma, a voler essere ottimisti, si può sperare che in qualche maniera torni a far capolino l’idea che l’Europa, soprattutto quella mediterranea carente di capitali, abbia bisogno di una politica economica pro-attiva per evitare lo sfacelo del suo apparato economico. Una politica che non può che partire dalla Germania, ma che dovrà attendere i temi del voto tedesco, previsto per il prossimo autunno. Nel frattempo non resta che sperare che le scene di panico ad Atene piuttosto che i tracolli delle vendite di Mercedes nel Guangdong facciano breccia nell’opinione pubblica tedesca, convincendo il Paese guida della comunità ad accelerare nei fatti la strada verso la riforma istituzionale e politica del Vecchio Continente. A parole è la politica di Angela Merkel. Ma, nei fatti, il disegno procede a rilento o non procede affatto, come dimostra l’ostruzionismo di fronte all’unione bancaria. Difficile che l’Europa acceleri prima delle elezioni d’oltre Reno.
Eppure, al quinto anno di crisi, il fattore tempo risulta sempre più importante. Soprattutto per l’Italia, finita in recessione dopo una pluridecennale semi-stagnazione e che, anche dopo le scadenze elettorali del 2013, sarà guidata da un governo incapace di procurare le risorse necessarie per una vigorosa politica di spesa pubblica o per soccorrere le banche, sui cui conti presto ricadrà come un boomerang la sostanziale insolvenza di una fetta consistente di clienti.
Certo, non è il caso di far professione di impotenza. Ci sarebbe molto da fare nel Bel Paese a partire da un programma condiviso di politica economica per almeno dieci anni, un miraggio quasi improponibile vista la situazione politica attuale. Anche per questo è per noi vitale che l’Europa faccia un passo in avanti lungo la strada dell’integrazione federale. Altrimenti non resterà, nel migliore dei casi, che far di necessità virtù, gabbando (caso Fiat docet) come neutralità e rispetto dei mercati assenza di decisioni imposte dal fatto che la cassa, ahimè, è vuota.