Nelle Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia due anni fa, il governatore Visco in piena crisi raccontava la stretta del credito così: “I prestiti alle imprese hanno rallentato nettamente nella seconda parte del 2011 e si sono contratti di circa 60 miliardi dall’inizio di dicembre dello stesso anno. Le difficoltà sono accentuate per le aziende medie e piccole, meno in grado di ricorrere a fonti di finanziamento alternative al credito bancario […]. Le difficoltà nel finanziamento delle imprese devono stimolare una riflessione sull’assetto complessivo del sistema finanziario italiano, sullo scarso sviluppo dei mercati obbligazionari e azionari e sulla conseguente eccessiva dipendenza delle imprese dai prestiti bancari“.
Due anni dopo, stesso palco, Visco ritorna e annuncia la fine del credit-crunch: “Emergono segni di miglioramento nel mercato del credito. Le nuove erogazioni sono tornate a crescere dagli ultimi mesi del 2014; in marzo i prestiti alle imprese erano del 2,2 per cento più bassi di un anno prima, con una forte attenuazione della caduta che osserviamo da tre anni“; ma – prosegue nella sua relazione – “In prospettiva, lo spostamento di una parte del processo di intermediazione dalle banche ai mercati potrà giovare sia alle imprese sia alle famiglie, consentendo alle prime di ampliare le fonti di finanziamento, alle seconde di diversificare maggiormente il risparmio“.
Se dunque sta finendo il grande gelo della stretta del credito, sono pochi i progressi in due anni sul fronte delle alternative al sistema ‘bancocentrico’ italiano. In aiuto delle imprese è arrivato solo un timido mercato obbligazionario, che ha digerito – grazie all’investimento delle stesse banche – solo 45 emissioni di PMI, con fatturato sotto i 50 milioni, per meno di mezzo miliardo di euro a fronte di oltre 100 miliardi di riduzione del credito bancario alle imprese dal 2011.
Ma Visco è il Governatore delle banche, attento commentatore dell’economia, delicato nel ripetere anno dopo anno che le imprese non innovano a sufficienza, guardingo nel tacere la verità alle imprese sul loro fragile assetto finanziario. Non esiste il suo omologo, il Governatore delle imprese, che abbia l’autorevolezza di dire al suo popolo che non è più tempo di guidare micro-imprese con 20.000 euro di capitale e debiti grandi dieci volte tanto, che è importante incassare le fatture, non vendere a chiunque, perché la cassa è l’unico antidoto contro l’insolvenza.
Non c’è chi prende il coraggio di spiegare ai piccoli imprenditori che le banche, ferite da sofferenze e crediti dubbi esplosi al livello di 250 miliardi in pochi anni, non concederanno più credito a moltissime imprese troppo vulnerabili, che le banche stanno scegliendo i clienti, non viceversa. Il Governatore delle imprese dovrebbe avvertire il suo popolo di non fare affidamento sulle grandi imprese e sullo Stato, che continueranno a pagare più lentamente che in ogni altro paese europeo, ignorando le direttive comunitarie sui pagamenti veloci e l’onore della puntualità, mettendo a rischio la salute finanziaria dei piccoli fornitori.
Nelle sue Considerazioni finali sarebbe costretto a spiegare che i mercati finanziari non sono per i piccoli imprenditori: chi sente parlare di cartolarizzazioni di prestiti alle PMI sappia che non se ne vede l’ombra; chi riceve inviti ai tanti convegni sui minibond può sedersi in ultima fila e sperare nel buffet, perché li chiamano “mini” ma non sono stati pensati per chi fattura uno o due milioni: ne servono almeno 10 o 20 e parecchi soldi per pagare avvocati e consulenti.
La solitudine dei piccoli imprenditori rimane una costante anche nella finanza. Senza Governatore, senza capitali, con un garante di cui non conoscono né il nome né l’esistenza. Testardi, indebitati, troppo innamorati delle loro aziende e dei loro prodotti per ascoltare le nuove regole della finanza.