“Ogni uomo è il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo si incrociano una sola volta, senza ripetizione”. Si può leggere questa citazione di Hermann Hesse sulla pagina iniziale del sito di Opera San Benedetto Onlus (www.operasanbenedetto.org), un’associazione che offre servizi di accompagnamento ed assistenza alle famiglie con bambini portatori di gravi disabilità, derivanti da malattie rare o da deficit neurologici congeniti ed acquisiti. Si trova a Buccinasco, in provincia di Milano e IlSussidiario.net ha intervistato Barbara Bertolaccini, presidente dell’associazione e mamma di Benedetto, un bambino disabile di sei anni: «Quest’associazione è nata da un’esperienza della mia famiglia: nel 2005 è nato il nostro terzo figlio, gravemente disabile. Dopo il trauma iniziale, nel momento in cui ci hanno detto cosa aveva, questa esperienza si è trasformata poi in un cammino, anche insieme agli amici, fino a scoprire che la presenza di questo bambino in realtà per noi era un grande miracolo, una grande grazia. Ci siamo anche accorti che fare questo percorso è stato possibile grazie al sostegno di tutte le persone intorno a noi, che ci hanno accompagnati. Poco dopo è emerso il desiderio di fare qualcosa anche per le famiglie che non possono avere questo sostegno».
In che modo avete trasformato in realtà questa idea?
« All’inizio dell’anno scorso, dopo aver incontrato alcune famiglie che avevano l’esigenza di essere accompagnate in questa esperienza, è uscito un bando della regione Lombardia per la tutela della maternità. Noi abbiamo proposto la sperimentazione di questa figura che abbiamo chiamato il “Tutor familiare”. Si tratta di persone che, quando nasce il bambino a cui viene diagnosticata una malattia, possono accompagnare la famiglia nella ricerca di servizi di cui ha bisogno. Quello che cerchiamo di ottenere è che i servizi vengano attivati il prima possibile, in famiglie in cui spesso il padre se ne va, il nucleo famigliare si sgretola e i bambini vengono abbandonati. Quindi è molto importante che vengano sostenuti fin dall’inizio, ma anche che siano accompagnati, che ci sia una relazione che permetta di riconoscere la presenza di questi bambini non come una sfortuna, come una disgrazia per la propria vita, ma come un miracolo».
Cos’è il “Laboratorio di Camilla”?
« È un laboratorio nato su un’esigenza pratica: i nostri bimbi non possono uscire di casa, perché hanno patologie così gravi che sono assistiti a domicilio e non c’è la possibilità di accedere ai servizi tradizionali. Per cui uno dei maggiori problemi, lavorando con i fisioterapisti che vengono a domicilio, nasce dal fatto che nelle case non ci sono attrezzature per fare la terapia. La casa generalmente non è attrezzata come un centro di riabilitazione. In più questi bambini hanno dei deficit sensoriali importanti, possono essere ciechi o avere difficoltà uditive. Anche i giocattoli normali non sono efficaci perché i bambini non li vedono e non sanno riconoscerli».
Cosa ha fatto quindi l’associazione?
« Era necessario creare delle soluzioni, degli spazi riadattati che in Italia non esistono in commercio e si possono trovare solo all’estero, in Inghilterra o negli Stati Uniti. Il problema è che sono attrezzature rivolte ai centri di riabilitazione che hanno spesso prezzi proibitivi per una famiglia. Abbiamo cercato di mantenere il più possibile il contesto della casa che, a causa delle decine di apparecchiature sanitarie per i bambini, si trasforma in un ambiente di ospedale. E in questo “ospedale” spesso non vivono solo i genitori ma anche i fratelli. Questo ambiente fa sì che le persone intorno al bambino diventino più degli infermieri che i suoi genitori o parenti. Il laboratorio è nato per costruire questi presidi che mancano per portarli alle famiglie. Sempre in accordo con i fisioterapisti che progettano ciò che serve per ciascun bambino che ha delle esigenze diverse. Poi è diventato nel tempo un percorso educativo per le famiglie ».
In che modo?
« Prima creando un giocattolo e portandolo ai genitori del bambino. Poi facendone un altro insieme, e infine portandogli il materiale per farlo fare a loro. Diventa un mezzo educativo per cercare di ricostruire con il proprio bambino quel rapporto originale, educativo e relazionale che non deve essere un rapporto patologico da infermiere o da fisioterapista. Realizziamo anche indumenti speciali per questi bambini, sia per la rigidità di braccia e gambe che ci può essere in alcuni casi, che non permette di riuscire a usare vestiti normali, oppure per i bambini che devono essere alimentati artificialmente, che hanno tubi collegati con lo stomaco. I vestiti particolari che noi realizziamo aiutano la mamma a vestire il proprio figlio e a rendere più facile la vita quotidiana, a non far diventare un incubo anche le cose più semplici».
Come inizia il rapporto con una famiglia che ha bisogno della vostra assistenza?
« Siamo circa una ventina di famiglie. Il rapporto inizia con una visita: andiamo a trovarli, a conoscere i loro bambini. Queste visite diventano poi sempre più frequenti, in cui si cerca di capire qual è il bisogno per rispondere a determinate situazioni. Dopo questa serie di visite a domicilio, iniziamo a stendere con la famiglia dei progetti per cercare in tutti i modi di agevolare la loro vita e periodicamente rivediamo questi progetti con loro.
Se le famiglie sono molto lontane da noi, cerchiamo di contattare altre associazioni che operano sul territorio e che abbiano queste caratteristiche di attenzione verso la famiglia che noi poi gli affidiamo: per esempio una mamma della Brianza aveva un bambino di sei anni che andava all’asilo. Lei trascorreva ogni mattina seduta in macchina fuori la scuola. A un certo punto gli educatori la chiamavano, lei entrava a scuola e praticava l’aspirazione per la tracheotomia del bambino. Poi tornava in macchina, in attesa della chiamata successiva. Questo è accaduto per due anni, ogni giorno. La abbiamo incontrata, ci siamo messi in contatto con una fondazione che lavora su quel territorio, la quale ha attivato un’assistenza infermieristica per tutte le mattine. Ora la madre può dedicarsi all’altro suo bambino e andare a lavorare».
Quali sono i vantaggi e i limiti di operare in Lombardia?
«Lavoro da 15 anni nel non profit e abbiamo avuto relazioni con molte altre realtà anche a livello nazionale, e credo che la Lombardia sia il posto ideale per il no profit. Penso che in Italia sia il luogo dove si lavora meglio. L’esigenza che però sento maggiormente in questo momento è una maggior collaborazione tra chi lavora sul campo e chi fa normativa, un maggior dialogo, perché molto spesso ci ritroviamo con una grave assenza di normative in certi settori o con normative che poi non rispondono assolutamente alle necessità».
Due settimane fa avete deciso di associarvi con CDO Opere Sociali.
«Non poteva che essere così. Quando, il giorno dell’iscrizione, abbiamo avuto il dialogo per presentare la domanda, sono rimasta molto colpita. Di solito quando si va in questi posti per compilare moduli o per pagare, nessuno ti guarda in faccia: compili il tuo modulo, paghi ed è finita lì. Invece mi è stato chiesto come sono arrivata lì, per quale motivo e di cosa mi occupavo con grande interesse. Il fatto che qualcuno si sia interessato a me e a quello che faccio mi ha sorpreso molto piacevolmente».
(Claudio Perlini)