Dal 24 marzo al 19 giugno il Castello Sforzesco di Milano ospita “L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla Pietà Rondanini”. Ci sono capolavori che per qualità artistica e vicende storiche si impongono nella loro assolutezza, che spesso si traduce in una sorta di isolamento. L’ultima scultura di Michelangelo ne costituisce forse l’esempio più emblematico: trascurata per secoli, tornò alla ribalta con le celebrazioni del quarto centenario della nascita dello scultore, nel 1875, e dopo varie vicende approdò a Milano nel 1952 insieme alla Cena in Emmaus di Caravaggio, destinata a Brera, segni straordinari del desiderio di ricostruzione anche culturale dell’immediato dopoguerra cittadino, ai quali dovremmo tutti guardare in tempi come i nostri, che vedono la produzione culturale spesso dominata dall’improvvisazione, dalle logiche commerciali e dalla diffidenza verso la riflessione scientifica.
Eppure questa mostra – che presenta disegni e sonetti autografi, oltre a dipinti e incisioni di collaboratori e seguaci, provenienti dai più importanti musei italiani e stranieri (British Museum, Ashmolean Museum, Windsor Castle, Louvre, Bibliothèque Nationale, Albertina, Musei Vaticani, Galleria Borghese e Casa Buonarroti) – sembra aver vinto la sua scommessa: riportare attorno all’estremo testamento artistico di Michelangelo quanto lo ha accompagnato e circondato fino agli ultimi giorni di vita del maestro. Sappiamo che dopo il 1550, consegnati gli affreschi della cappella Paolina, Michelangelo non dipinse più nulla, si dedicò molto all’architettura, in particolare al cantiere di S. Pietro, e tornò sul tema della Pietà, soggetto a lui caro fin dall’età giovanile, scolpendo almeno due gruppi marmorei, quello milanese e quello oggi all’Opera del Duomo di Firenze.
Per il resto disegnò molto, soggetti prevalentemente religiosi: a volte li lasciava ad allievi e amici perché li traducessero in dipinti, dimostrando una liberalità e un distacco forse poco conosciuto; in altri casi, sempre più frequenti negli ultimi anni, diventavano una personale e intima meditazione figurativa, segnata dallo sguardo sul rapporto tra il Figlio e la Madre, rivissuto con drammatica immedesimazione negli episodi più significativi della Passione.
Sorprende in particolare una serie di Crocifissioni, vicinissime per intensità grafica e compositiva alla Pietà Rondanini: lo stesso accanimento sui contorni delle figure, lo stesso riverbero di luce e di linee, la stessa folgorante trasfigurazione plastica. Michelangelo scolpiva come disegnava, tornando ogni giorno davanti al mistero del sacrificio di Cristo, provando a comprendere il dolore della Vergine e lo sbigottimento di Giovanni. Non diversamente, anche se l’immaginario a volte segue altri tracciati, lavorava sulle rime. I fogli attestano il diuturno lavoro sulle varianti che, come nei disegni, non attestano necessariamente un progressivo perfezionamento quanto l’inesausta pratica di diverse possibilità, tutte con una loro peculiare flessione di senso.
Anche questa compresenza dell’attività figurativa e di quella letteraria vuole essere il risarcimento dell’unità della persona, tanto più trovandoci di fronte a Michelangelo, impossibile da sezionare in diversi generi espressivi.
Un’ultima notazione. La mostra presenta l’unico disegno che si possa considerare preparatorio alla Pietà Rondanini: lasciano senza fiato la coerenza e il controllo assoluto dallo schizzo di piccole dimensioni al lavoro scultoreo a misura naturale; analogamente a quanto si può riscontrare tra le Crocifissioni disegnate e il piccolo Crocifisso ligneo proveniente da Casa Buonarroti. Come sempre accade di fronte al vero illuminato dal bello, è lo stupore a dominare il nostro riscontro tra questi fogli e queste sculture, di nuovo radunati, per la prima volta dopo quel 18 febbraio 1564, quando Michelangelo morì nella sua dimora di Macel de’ Corvi a Roma.