Dopo i disordini di agosto in mezza Gran Bretagna per l’accoltellamento a Liverpool di tre bambine in una scuola di danza da parte di un immigrato di origini ruandesi – disordini subito bollati, dalla stampa mainstream anche italiana, come fomentati da neofascisti – campeggia in questi giorni nel Regno Unito la polemica innescata da Elon Musk in merito a 1.400 casi di molestie sessuali su minori accertati nella città di Oldham, un sobborgo di Manchester, e in altri centri inglesi, dal 2022 ad oggi ad opera di gruppi di uomini di origine anglo-pakistana che i giornali anglofoni definiscono “rape gang” (bande con finalità di stupro).
Il governo Starmer ha cercato inutilmente di coprire lo scandalo delle mancate indagini per evitare di attribuire all’accaduto una matrice etnico-patriarcale religiosa. Per ironia della sorte, prima di Starmer il premier Sunak, di origini keniote, e il suo ministro degli Interni Braverman, di origini indiane, loro stessi figli di immigrati, avevano proposto una stretta sull’immigrazione prevedendo addirittura la deportazione in Rwanda dei clandestini. Oggi invece il capo del partito conservatore Badenoch, di origini nigeriane, ha chiesto un’indagine nazionale completa sulle rape gang nel Regno Unito. Tutto questo dopo che il ministro degli Interni Phillips l’aveva negata al Consiglio comunale di Oldham.
Non sorprende che i progressisti pro immigrazione siano anglosassoni pronti a sottomettere la verità alla logica del consenso. Sorprende di più che a difendere i confini siano i conservatori figli di immigrati da quei Paesi che più avrebbero sofferto l’imperialismo inglese. I fatti sono di ottobre scorso, ma la notizia è stata riportata solo qualche giorno fa grazie a Elon Musk, che ha rivelato la congiura del silenzio ordita dall’establishment progressista e dalla stampa mainstream. Il governo Starmer, per bocca del ministro Phillips, dopo aver definito una bufala le rivelazioni di Musk, ora assicura massima collaborazione e rapida conclusione dell’indagine pubblica.
In Italia invece nell’ultimo mese ci sono state tre aggressioni mortali commesse da immigrati, tutte nel ricco ed accogliente Nord Italia. Episodi che hanno riportato alla ribalta il tema dell’accoglienza, senza riuscire a districarlo dalla propaganda ideologica, dalla debolezza della politica nostrana e da un approccio deformato dalla stampa compiacente, che in massima parte è schierata a senso unico.
Nei fatti del Corvetto (Milano) con la tragica morte di Ramy Elgaml abbiamo avuto un assaggio di ciò che succede in altri Paesi, dove pochi violenti attuano schemi di sommossa basati su ben altri presupposti. E si inneggia alla rivolta, additando nei controlli della polizia la profilazione razziale. Come se un Paese tra i più vecchi al mondo, l’Italia, con la popolazione in costante calo, debba rifiutare un sano processo di immigrazione regolare. In Italia il problema è giovane, ed è sorto, prima di noi, in Paesi più avanzati e più aperti. Studi fatti nei Paesi scandinavi ci dicono che uno Stato riesce ad integrare gli immigrati quando non superano il 5%; oltre questa percentuale nasce facilmente il disordine sociale, perché masse eterogenee cercano la sicurezza chiudendosi in se stesse ed il numero le porta a sfidare l’ospitante.
L’immigrazione giova quando una cultura dominante assimila gli immigrati e rende la società omogenea. E successo anche quando emigravamo noi. È cambiato molto anche lo spirito degli immigrati, che nel nostro Paese sono in larga parte islamici. Lo spartiacque del cambiamento va individuato nel 1979, con la rivoluzione sciita in Iran e la conseguente radicalizzazione wahhabita dei sunniti. Da allora si è diffusa l’ideologia secondo la quale l’immigrato non deve integrarsi nella società di arrivo, a cui non deve nulla e dalla quale non ha nulla da imparare, anzi, meglio se evita ogni contaminazione con la società occidentale decadente ed impura, che rimane da sottomettere.
In Italia i problemi cominciano ora. La sfida del governo, che è già frutto di un cambiamento dell’orientamento popolare, sta nel rendere sensibili le politiche europee al cambiamento dell’opinione pubblica indirizzandole verso una risposta valida e duratura alla sfida.
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