NellIrlanda vittoriana del XIX secolo, avvolta da unatmosfera rigida e cupa, dominata dalle regole sociali e dal maschilismo, che prospettiva può avere una donna di umili origini, priva di mezzi economici, abbandonata da piccola? La storia di Albert Nobbs, scritta dallirlandese George Moore, offre una risposta originale, che fa riflettere. Per sottrarsi a un destino infelice, la protagonista decide di annullare la propria femminilità e di fingersi uomo, per trovare impiego in un albergo e guadagnarsi da vivere in modo dignitoso.
Dopo il debutto a teatro nel 1982, la curiosa vicenda arriva oggi nelle sale cinematografiche grazie a Glenn Close, che interpreta il ruolo principale, e a Rodrigo Garcia, che dirige la pellicola con eleganza e discrezione. La trama è giocata sul tema dellidentità nascosta: dietro il volto marmoreo della Close si nasconde una donna traumatizzata e ferita, che ha celato le sue fattezze femminili per farsi assumere al Morrisons Hotel di Dublino, alle dipendenze dellavara proprietaria. Spera con il tempo di aprire una propria attività, sogna a occhi aperti di avere un negozio (una tabaccheria) e in nome di questo progetto esegue le sue mansioni in modo ineccepibile, diventando il primo maggiordomo.
Lincontro/scontro con limbianchino Hubert, però, scombina le carte in tavola: il segreto non è più soltanto suo. Raccontando la sua storia, il nuovo arrivato instilla in Albert unidea nuova, il matrimonio con una donna con cui dividere la gestione dellagognata tabaccheria. Sentendosi compresa da qualcuno forse per la prima volta, Albert si lascia tentare e prova goffamente a convincere la cameriera Helen (Mia Wasikowska), innamorata di un giovane squattrinato, ad assecondare il suo folle progetto. Tra equivoci, illusioni ed epidemie, la situazione precipita verso il finale, che prova a gettare unombra di speranza su una vicenda intrisa di tristezza.
La regia e la fotografia riflettono lausterità dellepoca, con i colori spenti, gli interni modesti, contribuendo a creare unimpressione di estrema freddezza. Ma sotto tanta rigidità si nasconde un bagaglio emotivo represso e pronto a esplodere, come accade alla giovane Helen, che si lascia travolgere dalla passione, o al singolare maggiordomo, che si aggrappa con forza al suo desiderio di indipendenza.
Tutti, in qualche modo, sono costretti a negare se stessi in nome della sopravvivenza, schiacciati da una società che non lascia molte alternative a chi ha avuto la sventura di nascere povero. Ironica è la sorte di Albert, che si maschera per conquistare la libertà e resta imprigionata nella sua stessa finzione, tramutandosi nell’immagine della disillusione. All’inizio della storia, i suoi sacrifici sembrano mirati a uno scopo ben preciso, nobile e comprensibile.
Grazie all’ottima interpretazione di Glenn Close (candidata all’Oscar) e alla fedele ricostruzione dell’ambiente, nella prima parte il film si sviluppa in modo convincente e raffinato, giocando su un umorismo sottile e discreto. Dalla metà in poi, però, la protagonista diventa l’artefice della sua rovina e la sceneggiatura la segue a ruota, inceppandosi tra i poco credibili piani per conquistare l’agognata “vita ordinaria” e rischiando di spegnere l’interesse del pubblico.
La facilità con cui Albert si lascia fuorviare da un concetto errato di “coppia”, intesa come un accordo pianificato per condividere il lavoro in proprio, non appare credibile. Il fatto che Hubert, a sua volta donna sotto mentite spoglie, abbia trovato la sua isola felice in un finto matrimonio, non basta a giustificare l’ostinazione con cui Albert insegue la giovane e capricciosa Helen, persa in sogni di altro genere.
Il susseguirsi di eventi verso il finale rischia così di distogliere l’attenzione dall’elemento più interessante del film, la riflessione sulle scelte obbligate della donna dell’epoca, sulla repressione dei sentimenti e degli impulsi autentici dell’essere umano. La scena migliore arriva quando Albert e Hubert indossano gli abiti femminili e si concedono una passeggiata sulla spiaggia, respirando finalmente la libertà e la gioia di vivere che si conquistano soltanto esprimendo la propria natura. Solo in quel momento si ha davvero l’impressione di “percepire” l’animo della protagonista, altrimenti nascosto dietro la maschera indossata per il resto della storia.
Un film interessante che lascia però l’amaro in bocca, come se si intuisse un potenziale non completamente sfruttato: le premesse erano buone, ma non sono state sviluppate nel modo migliore.