In una prestigiosa scuola di giornalismo di una prestigiosa università gli aspiranti professionisti, sicuri ormai di diventarlo poiché la scuola garantisce l’iscrizione all’albo, leggono con avidità le “inchieste” giudiziarie dei grandi quotidiani, dopo aver assistito febbrilmente ai programmi tv della sera precedente. Intercettazioni a valanga, titoli strillati, indagini sugli intrecci di potere sempre “oscuri” e sempre “criminali”, ricostruzioni biografiche di personaggi sospetti e abilissimi, sempre colpevoli. L’insegnante chiede calma e capacità di ragionamento, si appella alla “presunzione di innocenza”, propone di considerare l’aspetto umano di chi finisce travolto dal tribunale mediatico prima ancora di aver potuto incontrare il proprio accusatore, ricorda i tanti casi finiti nel nulla ma solo dopo aver distrutto vite e famiglie, infine, sfinito, implora di almeno non dimenticare il precetto del giornalismo illuministico e relativistico, quello che tutti dicono di praticare: prima di tutto, dubita! Ma niente da fare. I giovani invidiano i colleghi che firmano gli articoli più duri e sprezzanti, gli autori di programmi di giustizia popolare guardandoli diventiamo tutti tricoteuses in attesa di veder rotolare le teste dalla ghigliottina. Li invidiano, e vorrebbero essere come loro (una parte, l’altra sogna invece il giornalismo sportivo: non è inquietante?), cavalieri che infilzano la spada nel cuore del corruttore, del corrotto, dell’inquinatore, della spia, del pedofilo, del traditore, del ladro, dell’assassino (ma solo se è mafioso o camorrista o n’dranghetano). È la stampa, bellezza, di che ti disperi?
Voci sempre più flebili e ormai spente hanno chiesto al giornalismo italiano un sussulto di dignità, di autocoscienza, di orgoglio. Che libertà di stampa è quella di mandare in pagina le fotocopie degli atti di indagine? Eppure le istituzioni del nostro giornalismo si ergono a difesa di questa libertà da camerieri piuttosto che esigere dai membri della sottocasta mediatica imparzialità oggettività e autonomia (quelle autentiche, non quelle finte). La verità è quella che abbiamo tutti i giorni davanti agli occhi: il «cane da guardia del cittadino», secondo la pomposa e falsissima autodefinizione dell’informazione, ormai abbaia solo a comando