da un paio di settimane che – a intervalli regolari – sono perseguitata dal ricordo di una delle scene fatidiche di Pretty woman (uscito nei cinema vent’anni fa) e da una domanda. Siamo a una decina di minuti dalla fine del film:
Senti Edward tu mi hai cambiata e ora non puoifarmi tornare come prima. Voglio di più. Me ne intendo del volere di più. La domanda è: quanto di più? Voglio la favola risponde lei con aria mesta, ma convinta. Relazioni impossibili – sospira Richard Gere – è il mio dono speciale: cado sempre nelle relazioni impossibili.
Già. Quando mai uno è libero di scegliere. Voglio dire: se gli dei ti hanno maledetto col nefasto super-potere dinfilarti con precisione chirurgica in rapporti impraticabili, sarà mica colpa tua. Singoia il rospo e finisce lì.
Tuttavia, recriminazioni stile suffraggetta a parte, è sul voglio la favola che minteressa puntare lattenzione. La prima volta che ho visto Pretty woman (prima non in senso cronologico – quando ancora mia madre cambiava canale sulla scena del pianoforte -; intendo: la prima volta che lho guardato avendo capacità di autocoscienza e almeno una delusione amorosa alle spalle) sono esplosa in una sequenza di peana sul tema grande Julia, tu sì che hai coraggio e non smetti di sognare!.
Ai tempi (beata ingenuità), ancora non sapevo che i film si dividono in tre atti; non sapevo che per precisa volontà degli sceneggiatori, prima del vissero felici e contenti, si passa obbligatoriamente per il worst of the worst, il peggio del peggio, la lite, la rottura, il dolore che più supplizio di così non si può (non che siano sadici, gli sceneggiatori: andasse tutto liscio fin dallinizio, fosse stata Julia una maestra elementare sposata a Richard-amore di sempre nonché impiegato delle poste, ammetterete, il film sarebbe stato di una noia letale).
Adesso – provvista delle suddette nozioni tecniche e con un tot di vita alle spalle in più -, quel voglio la favola, col terzo atto e lhappy end dietro langolo, non mi sembra più temerario come mapparve ai tempi. Ci credo, cara Julia, che alzi la posta: da buona protagonista di commedia hollywoodiana, sai benissimo che Richard non ti lascerà andare.
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Lo sai, che cambierà idea; lo sai, che prenderà in mano la sua lista “dieci cose per cui vale la pena vivere” e, sbianchettata la voce lavoro, lì, in pole position, ci metterà il tuo nome. Pensi: “In Manhattan perfino quel cinico di Woody Allen mette nella sua top ten una donna. Vuoi che con tutte quelle storie sul buddismo, la pace nel mondo e gli spot di macchine eco-compatibili, non lo faccia pure Richard Gere?”.
Noi che come codice postale non abbiamo 90210, invece, siamo intrappolati nell’oscillazione ineludibile tra il primo e il secondo atto. Vediamo nascere certe storie, certe situazioni. Primo atto.
Tutto va a scatafascio. Secondo. Ecco, lì, quando la forma è cambiata, quando la circostanza ci si rivolta contro, quando siamo amareggiati e abbattuti, lì, siamo sulla lama del “voglio la favola”. Voglio qualcosa di diverso, voglio di più.
La domanda che, a intervalli regolari, mi ossessiona da due settimane è: senza terzo atto a far da rete di salvataggio, se non si fiuta l’happy end, senza il rassicurante chiomone grigio di Richard Gere, come si fa a scegliere?