E appena calato il sipario sulla stagione televisiva autunnale e come al solito loblio che avvolge la magica scatola elettronica ha fatto scivolare sempre più lontano, nellincerto mondo dei ricordi, quanto accaduto.
Poco è rimasto nella memoria, soprattutto gli aspetti meno importanti e le polemicucce di secondordine.
E si corre il rischio di perdere di vista linsieme di una stagione che è stata di profonda rottura e che ha segnato, probabilmente, un punto di non ritorno. In qualche modo, le colonne dErcole, metaforiche, sono state oltrepassate e indietro non si torna.
Visto che gli elenchi (Vieni via con me docet) sono diventati una moda sociale, nemmeno noi ci esimiamo e vi proponiamo un nostro elenco di memorabilia della stagione appena trascorsa.
E il multichannel, bellezza
Immaginiamo che uno spettatore, per un qualunque motivo, nel 2000 abbia intrapreso un viaggio avventuroso, in luoghi inaccessibili e lontano da ogni possibilità di guardare la televisione e di avere accesso ai discorsi sociali su di essa.
Oggi, finalmente tornato, non crederebbe ai suoi occhi: era partito con un panorama fatto di sei, sette grandi canali e una pay tv che sbarcava faticosamente il lunario e oggi si ritrova in un mondo completamente cambiato. La digitalizzazione è ormai un fenomeno pervasivo: già a fine 2010 più dell80% delle abitazioni (poco più di 20 milioni) è digitale. Questo fenomeno ha portato con sé un notevole incremento dellofferta televisiva: oltre ai grandi canali generalisti, ne troverà una quantità più che abbondante di altri, alcuni dei quali già sono entrati nel novero delle scelte di visione più gettonate: La5, Iris, Boing, Rai4, Rai5, Mediaset extra, Rai premium solo per citarne alcuni. E pure la pay tv è cambiata. Oltre a Sky che nel frattempo è cresciuta (circa 4,8 mio di abbonati) e che continua a mettere su muscoli è nata anche unalternativa convincente sulla piattaforma digitale terrestre, più economica e mirata, Mediaset premium (circa 4 milioni di abbonati).
Insomma la possibilità di scegliere, pagando ma anche no, si è ampliata con una dinamica esponenziale. Un nuovo mondo, appunto.
Il crollo delle antiche certezze
Limpatto sulle dinamiche di ascolto di questo nuovo sistema di offerta è chiaramente visibile. Nel 2000 le 6 reti principali (3 mediaset e 3 rai) sulle 24 ore avevano una share complessiva del 90%. Cioè, 9 spettatori su 10 nel corso della giornata sceglievano una di quelle reti per spenderci il proprio tempo televisivo. Oggi, i numeri sono profondamente cambiati: solo 7 italiani su 10 continuano a preferire lofferta delle sei generaliste maggiori.
A un osservatore distratto può sembrare poco; in realtà è una dinamica che porta con sé un impatto economico non trascurabile: ogni punto di share nel mercato della pubblicità vale almeno un paio di decine di milioni di euro.
E, poi, su un versante editoriale, frammentazione, segmentazione, parcellizzazione possono essere il semplice esito, non voluto, di una dinamica tecnologica, ma, nello stesso tempo, anche unoccasione da cavalcare per proporre programmi nuovi, che non si rivolgono più indistintamente a una anonima massa di consumatori, ma che vanno a lavorare su gruppi meglio definiti.
E, da qui, la possibilità, finalmente, di proposte più ardite sia linguisticamente che contenutisticamente. Oltre il buon senso comune e il metodo della scopiazzatura.
Il potere della realtà
E’ una stagione in cui fra i successi sicuri e importanti stanno tanti prodotti che hanno come oggetto lo stare accesi sul mondo, l’analizzarlo e il raccontarlo: talk show politici, cronaca nera, reportage, piuttosto che le forme ibride, a metà fra talk e intrattenimento, che ambiziosamente (e faziosamente) hanno tentato di raccontare la realtà del paese nelle sue drammatiche emergenze morali e materiali. Ballarò e Annozero, Exit e L’infedele, Report, Quarto grado e Chi l’ha visto, Vieni via con me. E l’elenco è per difetto.
La trasformazione della politica in specie di circo Barnum con i suoi teatranti e le sue macchiette, che, guidato dal pifferaio magico di turno rinnovano di settimana in settimana la ormai stucchevole ossessione di incolpare il premier di qualunque infamia. E poi l’insopportabile teatrino “alla Fazio” dove basta usare le parole giuste, quelle politically correct e si può dire qualunque cosa spacciandola per la verità. Consigliamo al Fabio nazionale la lettura di un bellissimo libro di Arthur Koestler, Il buio a mezzogiorno, dove, fra l’altro, si trovano delle riflessioni strepitose sui danni che provocano le parole quando sistematicamente distorcono la realtà e la piegano all’ideologia dominante.
E guai a chi cerca, sbracciandosi, di spiegare che è una violenza molto più cattiva e dannosa quella, con il pretesto del racconto, di prendere pezzi di mondo, sensibilità, approcci e di spacciarli come gli unici, quelli giusti, quelli che le persone perbene non possono non condividere. Verrebbe voglia di un sonoro “Vaffan…” . “Vaffanbicchiere”, naturalmente
E infine il tragico debordare della cronaca più terribile in televisione: la vicenda della povera Sara Scazzi raccontata, dettagliata, sminuzzata, analizzata e spolpata in ogni più intimo dettaglio. Con lo sgomento, ogni volta, per il baratro sempre più profondo in cui questa tragica vicenda ci ha ributtato.
Quindi, sembra che parlare della realtà funzioni. Ma quale realtà? Quella tragica di Sara e Yara? Quella dei dibattiti politici? C’è un’antica presunzione (e giustificazione) in questo: che la diretta e il racconto della realtà siano in qualche modo sinonimo di verità, di oggettività e che in nome di questo tutto sia consentito.
Ma in televisione l’ effetto verità è una chimera. Guai a lasciarsi illudere. C’è sempre e comunque un intervento del mezzo sulla realtà, che la filtra, che ne offre una lettura “faziosa”; l’oggettività non esiste. Esistono punti di vista più o meno onesti sulla realtà. Lo scopo non è il vero, ma il verosimile. Quanto meno adulterato possibile.
C’è del lavoro da fare. Tanto.
Dal reality, al politicality e al criminality
Quando la realtà viene rappresentata nelle sue forme più morbose, con i toni più concitati e con tutte le amplificazioni possibili, è difficile che la rappresentazione “finta” del mondo possa risultare altrettanto interessante. E’ forse questo il motivo del calo di interesse che hanno registrato prodotti ormai storici come Il grande fratello o X factor? Troppo più forti, troppo più morbose, troppo più imprevedibili le storie che la cronaca propone. Dal parrucchiere si sente parlare della povera Sara, non più dei personaggi del Grande fratello.
Varietà e ripetizione
In tempi di crisi non si va molto per il sottile; la sicurezza anzitutto. Ecco perché l’intrattenimento delle reti ammiraglie non ha certo brillato per tasso di innovazione. I bambini l’hanno fatta da padroni, sia nella versione canterina (Io canto che Ti lascio una canzone) che in quella simpatico-canagliesca (Peter pan). L’altra chiave, certo non originale ma in qualche modo sicura, è stata quella musicale de I migliori anni. Nel complesso, questa strategia ha pagato. Anche se in calo rispetto alle stagioni passate, il rendimento è stato soddisfacente e questi prodotti hanno sostenuto egregiamente le medie di ascolto delle reti che le hanno trasmesse.
Il calo fa pensare però a un ciclo di vita non lunghissimo; e questo chiama in causa una delle questioni più delicate della televisione oggi. La capacità di innovazione. Una sfida da raccogliere, necessariamente.
Il neoromanticismo nella fiction
In chiaroscuro i dati della fiction. In calo i vecchi franchise (Distretto di polizia; Ho sposato uno sbirro e pure i Cesaroni in versione Moccia). Diverse le strategie dei due network: più varietà di formati (dalle miniserie, molte, alle serie medio lunghe) per Rai. Netta preferenza in casa Mediaset, per motivi industriali, per il prodotto di lunga serialità. Interessante però notare che i maggiori successi dei due network sono stati due prodotti dalla connotazione assolutamente femminili, due moderni feuillieton, due telenovelas. Per Rai1, Terra ribelle, prodotto semplice, diretto e senza tanti fronzoli. Una location affascinante (nella storia la Maremma del XIX secolo; nella realtà l’Argentina); un intrico di relazioni fra due amici d’infanzia e due sorelle, nobildonne decadute, con tanto di intrighi e scene “speziate”. Per Canale5 Il peccato e la vergogna, ambientata negli anni ’30, che racconta la storia di Nito (Gabriel Garko), un bambino abbandonato dalla madre e cresciuto in riformatorio che da grande aderirà alla milizia fascista e che lotterà, innamorandosene poi in modo ossessivo, contro Carmen (Manuela Arcuri), donna dal carattere forte, contraria a ogni forma di regime.
In generale, faticoso è stato il processo di innovazione e deludenti gli esperimenti di contaminazione di generi, grotteschi negli esiti qualitativi e insoddisfacenti dal punto di vista degli ascolti.
E’ morto il cinema, W il cinema
Naturalmente ci riferiamo a quello in televisione (quello in sala pare andare molto bene) e ci riferiamo solo alla vulgata comune. E’ vero che le reti maggiori non possono più permettersi se non occasionalmente serate a film, soprattutto nei periodi di garanzia; ed è vero che inizia a diventare complicato anche per le reti minori. Epperò, c’è da considerare un semplice fatto: a occhio e croce ci sono una ventina di canali cinema nel panorama televisivo italiano, fra free e pay. Ipotizziamo che ogni canale trasmetta una decina di film al giorno? Fanno circa, nel complesso, 200 film al giorno. Moltiplichiamo per 365 giorni all’anno e la cifra diventa quasi impronunciabile. Soprattutto, data la consistenza dei magazzini, per soddisfare le esigenze di programmazione ogni singolo film viene trasmesso più e più volte all’anno. Accellerata consuzione, si potrebbe dire. Il cinema non è visto meno; è visto diversamente.
Ma una cosa, a parere di chi scrive, è assolutamente chiara: la televisione non può fare a meno del cinema. E non solo per riempire buchi e spazi; ma, soprattutto, come insostituibile fonte di ispirazione e modello di soluzioni linguistiche, di storie da raccontare, di talenti da utilizzare.
I telefilm
E lo stesso si può dire per il prodotto seriale, anch’esso dato per morto, dopo essere stato esaltato e celebrato come il prodotto principe della modernità, quello, meglio di altri, capace di intercettare umori e nevrosi e condizioni dell’uomo contemporaneo.
Due sono le osservazioni che vengono spontanee: se è una tipologia morta perché una rete generalista come Rai2 dedica con successo tre o quattro serate ai telefilm (Castle, NCIS, lo spinoff Los Angeles, Cold case etc etc)? Senza parlare di come le serie popolino e sorreggano i palinsesti di un numero indefinito di altri canali sia pay che free.
Ma soprattutto, ed è la seconda osservazione, si tratta spesso di piccoli capolavori, capaci di parlare di realtà ineffabili: United state of Tara e In treatment della malattia psicologica; The pacific, Band of brothers e Over there, solo per citarne alcuni della guerra; il recente Boardwalk Empire e il classico I sopranos del mondo della malavita organizzata sia contemporanea che di inizio secolo.
E spesso questi prodotti, come ieri Lost e l’altro ieri X files, sono anche dei piccoli trattatelli di filosofia: chi siamo, dove andiamo qual è la consistenza della realtà. Di questo parlano.
E, infine, anche quando sono solo divertenti e di “intrattenimento” lo sono veramente, con 5 stellette di merito. Grandi prodotti di grandi autori. C’è molto da imparare là fuori.
(Gigi Freddi)