Pungente, duro, spietato. Questo è Il Grinta, ultimo exploit cinematografico dei cinici fratelli Coen. Che sfruttano la scia rassicurante di un genere classico come il western per stupire con la carica innovativa della loro tutta personale idea del mondo e delluomo. Con una provocazione: aprire le danze con una citazione biblica per conferire un senso di indiscutibile verità al loro racconto.
Non scardinano le regole, i Coen. Abbracciano la tradizione, rispettandola negli elementi essenziali che ne codificano la struttura. La circolarità del racconto, la corsa tra inseguiti e inseguitori, il saloon, cuore pulsante di una giustizia che deve essere ottenuta. Pur con evidenti innovazioni. Un prologo inusuale, una figura femminile che non ha bisogno di essere difesa, un genere che rispecchia il carattere dei tempi moderni. Alla frattura, preferiscono la reinterpretazione del senso. Perché la storia resta la stessa dellillustre precedente, firmato da Henry Hathaway nel 1969, e che valse al grinta John Wayne lunico Oscar della sua carriera.
A cambiare è il significato, complice unottica spietata e moderna che si manifesta attraverso le azioni decise e senza ritorno di una donna che è poco più di una bambina. La tenace quattordicenne Mattie Ross è risoluta nel voler assicurare alla legge Tom Chaney, assassino del padre, e per riuscire nellimpresa assolda il vecchio e ubriacone sceriffo Rooster Cogburn – un Jeff Bridges candidato allOscar – e il ranger texano LaBoeuf (Matt Damon).
Mentre, però, nel film del 1969 la fragilità della sua adolescenza trovava giusta protezione in Cogburn e LaBoeuf, nella pellicola dei Coen, Mattie, armi in pugno, si trasforma nel simbolo di una riuscita giustizia personale. Lei, che avrebbe solo desiderato condurre Chaney di fronte al giudice per non lasciare impunita luccisione del padre, si erge essa stessa a giudice di vita o di morte. Cosè questa, allora? Semplice giustizia privata o vendetta? E qual è, se esiste, il confine che separa questi due mondi?
Forse non c’è un limite netto. Nella pellicola di Hathaway, Mattie otteneva il suo scopo senza macchiarsi di nessuna colpa e il classico finale western, con il “giustiziere” di nome Grinta che si allontana da lei a cavallo sventolando il cappello, chiude il racconto con un happy ending. Qui tutto è diverso. Amaro e rassegnato. Nell’ultima scena, Mattie, ormai adulta, si allontana, da sola e di spalle, verso il proprio destino. Non si volta mai indietro. Non lo fa ora, come non lo aveva fatto, anni prima, dopo aver premuto il grilletto. Va avanti, con coerenza e grande dignità, consapevole che quell’attimo abbia stabilito il senso di ogni sua perdita.
Perché Il Grinta non è semplicemente un film sulla necessità del farsi giustizia. I Coen vanno oltre. Ci parlano di perdita intesa come morte, ma soprattutto come privazione di qualche cosa, prezzo da pagare per aver agito a propria difesa. Quella di Mattie è una perdita spirituale. È sola, dopo la scomparsa del padre e per la lontananza dei sue “angeli custodi”. Ma anche fisica, e il suo corpo ne porta segni tangibili. Così evidenti, commoventi e riconoscibili nell’ultima immagine del film.
Mattie è tutti noi, giovani uomini e donne di un mondo ferito da crimini lasciati impuniti. “Si deve pagare per tutto in questo mondo. Niente è gratuito, tranne la Grazia di Dio”. Queste sue parole risuonano dure, consapevoli, mai disperate, corollario di un distacco che non è emotivo, ma indispensabile per procedere senza rimpianti. Per trovare giustizia, in qualche modo. Per offrirsi come “custodi” di un passato paterno colpito a morte e ora è un bagaglio da portarsi dietro, da proteggere, da ricordare per andare avanti. Come quelle due bare che – una all’inizio del film, l’altra alla fine – vengono chiuse e caricate da Mattie sul treno, destinazione casa.
Questo ci dice che il circolo, come in ogni western che si rispetti, è stato chiuso. Giustizia è stata fatta. Ma a che prezzo? Alla coscienza di ognuno di noi la risposta.