A chi non è accaduto di doversi sottoporre, obbligato per bon ton od amicizia, a quegli sfiancanti stillicidi di inettitudine tecnica rappresentati dalla visione de il filmino delle vacanze del conoscente? Tediosissime, interminabili e lineari riprese fatte di orizzonti, di cieli, di volti zoomati, di case sfocate, sovente accompagnate da commenti in presa diretta ai quali fanno eco commenti in diretta che si accavallano ai primi e agli orizzonti, e alle case sfocate.
E quanto entusiasmo da parte di chi ha prodotto il filmino, che nel rivederlo ha la possibilità di rivivere luoghi ed emozioni provate; e quanto fittizio entusiasmo da parte di chi guarda i riflessi dei ricordi altrui. A suo modo la cosa è anche divertente e comunque dà una buona misura di cosa si sia pronti a fare per amicizia o mera educazione. Secondo una nota legge scientifica, poi, i filmati degli altri sono tutti micidiali, mentre i nostri no, cosa che ci consente di perpetrare, negli occhi dei nostri conoscenti, il medesimo crimine, in una sorta di pena del contrappasso.
Il filmino delle vacanze è la quintessenza dellamatorialità e, da un punto di vista darwiniano, sta al film come il lemure sta allessere umano; geneticamente affini perché prodotti con lo stesso mezzo e per lo stesso fine (entrambi vogliono raccontare qualcosa) ma fenotipicamente così diversi da far dubitare del fatto che in qualche modo siano imparentati. Cè poi unimportante momento evoluzionistico in cui il filmino delle vacanze perde la sua coda documentaristica e fa un balzo in avanti verso una pura narrazione che il più delle volte è narrazione di fatti astratti o mai avvenuti.
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Si tratta di un balzo evoluzionistico enorme. La narrazione, infatti, implica una poetica, cioè una poiesis in cui l’autore crea una prospettiva soggettiva del reale, cioè un modo di dire e mostrare solo ed unicamente suo. In effetti anche la documentaristica è soggettiva, ma il suo eterno sforzo è cercare di non esserlo. In ogni caso, passati al film amatoriale, l’implicazione è che ciò che viene mostrato deve essere per forza ri-costruito, perché la realtà o il racconto visti attraverso gli occhi del regista sono programmaticamente soggettivi.
In questo, un film horror amatoriale brutalmente (e simpaticamente) inetto come Violent Shit (1989) non è affatto diverso da un capolavoro come Amarcord (1973); il regista Andreas Schnaas e Federico Fellini volevano entrambi raccontare qualcosa attraverso una loro visione (non che ci sia altro mezzo per un essere umano, d’altronde!). La differenza sostanziale è data dal fatto che per Fellini l’arte si affiancava alla tekne che trasforma il semplice atto creativo (poetico) in stile, il tutto supportato, più prosaicamente, da un budget che rende possibile il tutto.
Il povero Schnaas non solo non aveva a disposizione i soldi ma soprattutto non aveva la tecnica per traghettare la sua “poetica” su un lido stilistico e passare dall’essere “un individuo qualunque con in mano una videocamera” ad essere un regista con la “r” più o meno maiuscola. Il succo del film amatoriale, che cerca disperatamente di essere cinema ma manca dei mezzi e della tecnica per vendersi come tale, è tutto qua; ed è tutto qua anche il cinema finto-amatoriale che cerca di percorrere l’evoluzione a ritroso ri-portandosi alla fase del filmato delle vacanze così che tutti, proprio tutti, possano riconoscersi in esso, perché tutti, proprio tutti, l’avrebbero potuto girare.
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Così credono e così devono credere. Questo, a maggior ragione, nell’era digitale che mette a disposizioni di chiunque dei discreti mezzi di produzione filmica. Cannibal Holocaust (1979), The Last Broadcast (1998), The Blair Witch Project (1999), Cloverfield (2007), Rec (2007) sono alcuni fra gli horror che hanno usato le tecniche più svariate, anche di tipo pubblicitario (viral marketing), per assomigliare il più possibile ad un filmato “involontario”, di quelli catturati senza alcuna preoccupazione o capacità tecnica, in modo da rispecchiare non solo i risultati ottenibili da un comune individuo, ma soprattutto per fare in modo che il comune individuo si rispecchi in essi.
Si tratta di una sorta di populismo cinematografico progettato a tavolino, la cui volontà è quella di retrocedere stilisticamente per compiere una mimesi con i risultati ottenibili dal video maker della domenica, che gioca con le handycam, con le webcam e con le videocamere integrate dei cellulari; cioè un po’ tutti. Quindi, sempre programmaticamente, i film finto-amatoriali si sprecano in fuori fuoco, in lunghissimi piani sequenza, in traballamenti nauseabondi (la tecnica della shakycam), in primissimi piani dermatologici, in noiosissimi tempi morti.
Esattamente tutti quegli strafalcioni che rendono amatoriali le riprese amatoriali. L’aura di approssimazione low-budget viene quindi potenziata da una sceneggiatura “verité” fatta di dialoghi fintamente alla buona, fintamente improvvisati, fintamente amatoriali. Tutta questa “approssimazione” per fare apparire un film poveristico costa, in verità, parecchi soldi e parecchia tecnica ma, a quanto pare dai risultati al boteghino, poi paga.
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Lo spettatore viene proiettato in un film che lui stesso pensa avrebbe potuto proiettare, un film, rimanendo in tema horror, tanto spaventoso perché potenzialmente vero, in quanto ripreso in un modo che deve essere per forza specchio della quotidiana inettitudine di ognuno di noi con in mano una telecamera. E il bello è che fra il film finto-amatoriale e lo spettatore, il quale non è uno psicotico e sa che sta vedendo un prodotto di finzione, si stringe un patto di sospensione dell’analisi della realtà grazie al quale la finta amatorialità funziona lo stesso, con i suoi mezzi e con i suoi trucchi, in un rispecchiamento continuo fra il film e lo spettatore.
Vi sono casi, poi, in cui il vero amatoriale assurge al livello di film mainstream. È il caso di Paranormal Activity (2007), horror casereccio girato dal giovane israeliano Oran Peli. Paranormal Activity non è un film che decide di essere reality per scelta artistica, è semplicemente reality perché non aveva altre alternative dato il budget a disposizione e la non professionalità di Peli.
Il film è fiaccato da tutti i limiti prevedibili in una pellicola amatoriale (tempi morti, recitazione approssimativa, etc.) ma funziona come horror, e quando lo fa è perché usa tecniche ben note al cinema, cioè non mostra nulla, lasciando che la paura si costruisca nella mente dello spettatore, coadiuvando il processo con effetti sonori e poco altro; e come risaputo è l’immaginazione di chi guarda che fa il grosso del lavoro.
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Peli (comunque poi aiutato da Spielberg a rimaneggiare il suo film per la distribuzione mondiale) non cerca di fare un film populista, nel senso precedentemente indicato; il suo è un film genuinamente amatoriale ma prodotto con quel minimo di capacità tecnica e di scaltrezza tali da attirare l’attenzione delle major cinematografiche ora, come sempre, avide di pellicole che colgano le mode, le idee e le speranze del più vasto pubblico.
Fra le mode la videocamera prêt-à-porter, fra le idee la regia fai-da-te e fra le speranze, come profetizzato da Warhol, quei famosi 15 minuti di fama pubblica: un film che è “come se l’avessi girato io” è un primo passo verso tutte e tre queste cose. Dare giudizi morali non sta a me. Alla fine, a chi ama il cinema, importa solo una cosa: che la pellicola in questione lo abbia saputo stregare indipendentemente dai mezzi usati. Che sia quindi amatoriale, finto-amatoriale, documentaristico o arty conta poco, basta solo che faccia sognare. Quei filmatini delle vacanze però…