Anzitutto non è un film per tutti e, diciamocela tutta, non è neanche un gran film. Se non ci fosse un retroscena assolutamente indimenticabile, potrebbe tranquillamente essere considerato un prodotto così così perché, siamo sinceri, come film in quanto tale non è affatto un granché, e la sinossi non esiste.
Si intitola Taxi Teheran e, per la regia di Jafar Panahi, è stato definito come ”il film scomodo che non doveva essere girato”, e qui sì che inizia il bello. La cosa strabiliante di questo prodotto cinematografico, vincitore del premio Miglior Film al Festival del Cinema di Berlino 2015, è proprio tutto ciò che infatti ci sta dietro. Perché a Taxi Teheran sussiste un retroscena, una scoperta, una ricerca e uninformazione alla quale lo spettatore per primo non può sottrarsi. Se ancora non sai, appena terminata la proiezione correrai a casa a informarti perché saranno troppe le cose che non ti torneranno. Ma se stai leggendo questo articolo ti facilito il compito, e ti informo io.
La prima domanda da porsi, ovviamente, è chi sia questo regista fantomatico tal Jafar Panahi. un amante del Cinema, un cultore del Cinema, un artigiano del Cinema anzitutto. nato nel 1960, in Iran. E ricordatevi questo dettaglio perché non è affatto cosa da poco. La sua carriera artistica è cresciuta negli anni insieme a lui. Tutti i suoi lavori, da sempre, sono riconosciuti come un qualcosa di eccezionale dalla critica cinematografica, tantè che il suo primo lungometraggio Il palloncino bianco del 1995 vince la Caméra dOr alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Il suo secondo lavoro, Lo specchio, classe 1997, conquista il Leopardo dOro a Locarno.
Nel 2000 Jafar Panahi partecipa attivamente alla Mostra del Cinema di Venezia, dove presenta Il cerchio, e vince il Leone dOro oltre al Premio Fipresci. E qui, per Jafar Panahi, inizia il calvario. Il suo film, infatti, mette sotto lo sguardo attento del mondo intero la condizione del tutto discutibile della donna in Iran, attraverso una serie di ritratti sconvolgenti, spietatamente realistici e crudi. Ovviamente gli viene applicata la censura da parte dello stato Iraniano: lungometraggio bandito da tutte le sale cinematografiche in Iran.
Ma Panahi non si arrende, e sfida di nuovo il mondo del Cinema, e il suo Paese natio soprattutto, denunciando col potente mezzo dellaudiovisivo tutte le ingiustizie della sua terra. Nel 2003 torna a Cannes con Oro rosso, e vince – nella sezione Un Certain Regard – il premio della Giuria. Anche questo suo film verrà però vietato dalle autorità iraniane che, ancora una volta, ne impediranno la distribuzione in tutti i cinema del Paese.
Tre anni dopo si vola a Berlino, con Offside, dove vince lOrso dArgento per la Migliore Regia, ma racconta di alcune adolescenti iraniane che impavide sfidano le interdizioni per assistere clandestinamente a una partita di calcio. Provate a indovinare? Neanche questultimo lavoro otterrà lautorizzazione per la distribuzione in Iran.
Nel 2009 scatta il primo arresto, per aver assistito a una cerimonia in commemorazione di una giovane manifestante uccisa nel corso delle dimostrazioni seguite alla controversia rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Qualche mese più tardi gli sarà quindi rifiutata la richiesta di rinnovo del visto per recarsi al Festival di Berlino. Jafar Panahi viene arrestato una seconda volta, nel 2010. Trascorre, senza apparente motivo, 86 giorni nel carcere di Elvin, prima di esser rilasciato su cauzione il 25 maggio dello stesso anno.
Invitato come giurato al Festival di Cannes, lascerà tuttavia la sua poltrona simbolicamente vuota per tutta la durata della manifestazione, con tanto di sostegno da parte dei numerosi artisti e cineasti presenti in quei giorni da tutto il mondo.
Ma l’Iran non perdona, e nel 2010 la pena inflitta a Panahi si aggrava: mai più film, niente sceneggiatura, nessun contatto con la stampa, nessun viaggio al di fuori dei confini del Paese per un periodo di tempo indeterminato. In altro caso la condanna sarà durissima: 20 anni di incarcerazione per ogni divieto violato, con pena complessiva pari ad 80 anni di galera. La condanna ovviamente viene confermata in appello, nell’autunno del 2011.
Nonostante tutto, con l’aiuto di Mojtaba Mirtahmasb realizza a quattro mani This is not a film, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2011. Nel 2012 Panahi ottiene il Premio Sakharov per la Libertà di Pensiero del Parlamento Europeo. Non potrà assistere alla cerimonia, glielo ritirerà la figlia a nome suo.
Nel 2013, di nascosto, corealizza un nuovo lungometraggio, con l’amico Kambuzia Partovi, intitolatoClosed Curtain, col quale vincerà – ancora una volta – l’Orso d’Argento per la sceneggiatura al Festival di Berlino nel 2013.
Ora, dopo tutta questa serie di incriminazioni, di galera, di punizioni – e forse nemmeno immaginate cosa significhi essere incarcerato, da innocente, in Iran – arriva, inaspettato e tenuto nascosto fino all’ultimo Taxi Teheran, presentato dallo stesso Panahi proprio quest’anno, nel 2015, in occasione del Festival di Berlino. È il suo primo vero film girato da solo e in esterni dal 2010.
E da qui parte la mia riflessione. È quasi un docu-movie, più che un vero racconto. Non c’è storia, non c’è finzione, poco montaggio. Telecamera nascosta, installata sul cruscotto di un taxi. A guidare lo stesso regista, Panahi, che non solo muove l’occhio della cinepresa a piacimento, ma guida, guida lui stesso un – così lo definisce uno dei passeggeri – ”vecchio carrozzone”. E così ci si addentra in punta di piedi in un mondo tanto sconosciuto da apparire totalmente artefatto; quello dell’Iran, quello della gente di Teheran.
Dialoghi assurdi, tra i vari passeggeri che di corsa in corsa si seguono, tra un sedile e l’altro. Prima una maestra bisticcia con un professionalissimo ladro di portafogli. Poi uno ”spacciatore di film internazionali”, e poi il morto. Sì, ci scappa pure (o quasi) il morto. E tu, spettatore, attonito, resti lì con le tue mille domande, i tuoi mille dubbi, perplesso, e ti chiedi se davvero non sia finzione, se davvero sia possibile che in un giorno soltanto accadano cose così, a Teheran. Ma più le immagini scorrono e più capisci che è tutto vero, e quasi ti infastidisci, un tantino ti spaventi.
Sul sedile posteriore sale poi la nipotina dell’autista, la piccola della famiglia, a sua volta presa da un compito importante: fare un lungometraggio. ”Me lo ha detto la Maestra”, racconta alla telecamera, senza sapere. ”Abbiamo delle regole ben precise”, continua. ”Niente cravatta al personaggio buono, barba lunga al personaggio buono, un nome del Corano al personaggio buono”. E poi, ancora, lei, la ”signora delle rose”, avvocatessa occidentale sposata con un iraniano e amica di Panahi da molto tempo. È lei che inizia a parlare delle torture alle quali il Governo iraniano quotidianamente ti pone innanzi. È lei che denuncia, ma perspicace e lungimirante per prima intuisce, capisce di esser ripresa e raccomanda ”Taglia questo spezzone dal tuo film”, prima di scendere a fine corsa.
”Il Governo Iraniano ci tiene sempre a farti sapere che sa tutto di te. Loro ti controllano sempre, e allora una volta uscito di prigione ti sembra di esser meno libero di quando stavi dentro. Vogliono obbligarti a chiedere, per favore, di tornare in galera, perché qui fuori si sta troppo male a causa delle loro oppressioni. Sanno sempre dove sei, cosa fai, dove andrai. Sempre”, conclude.
E anche Taxi Teheran, nel suo piccolo, ce lo dimostra. Improvvisamente schermo nero. Un rumore forte, di vetri rotti. Qualcuno ha sfondato il parabrezza del catorcio-taxi guidato tutto il giorno da Panahi. ”C’è la telecamera, ma non c’è la memory card” dice una voce in sottofondo, quella del ladro.
Jafar Pahami conosce il suo Paese come un topo conosce la sua trappola. Aveva previsto tutto, sapeva di esser seguito, sapeva che l’Iran sa sempre tutto quello che fai. Ecco perché a taxi parcheggiato la memory card non l’ha lasciata in macchina. Allora, se dobbiamo parlare di cinema, e se dobbiamo parlarne bene, non possiamo toglierci dal fatto che se Taxi Teheran fosse semplicemente considerato un film non potrebbe esser giudicato in altro modo se non che ”un prodotto inguardabile”, perché non mi racconta nulla. Non mi avvince, né interessa.
A meno che, cosa fondamentale in questo caso, io non veda questo film da preparato. Non su tutto, ché non ce n’è bisogno. Ma, almeno, su cosa significhi essere Jafar Pahami, e su quale sia la sua storia. Allora, e solo allora, in quel caso, avendo capito che un brutto film in realtà è un qualcosa di speciale, imperdibile e indimenticabile, allora sì, che in quel caso non vedrete l’ora, come me, di rivederlo. Taxi Teheran adesso sì che non vedo l’ora di rivederlo!
Titoli di coda, degni di nota: «Il Ministero della Cultura e dell’Orientamento Islamico convalida i titoli di testa e di coda dei film «divulgabili». Con mio grande rammarico, questo film non ha titoli. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non sarebbe mai venuto al mondo».