Nessuno vuole morire, solo che qualcuno non riesce a vivere in queste condizioni: è questa la conclusione a cui arriva Miele, la protagonista del film, spiegando a se stessa la scelta delleutanasia. La morte assistita verso i malati terminali. Valeria Golino si cimenta nella sua opera prima, da regista, dai contenuti difficili, poco addomesticabili. In conferenza stampa, la coppia Golino-Scamarcio ha espresso fino allultimo il dubbio se raccontare una storia del genere. Molti, tra amici e produttori, glielavevano sconsigliato: sia per la tematica dolorosa, che non dava certezza di trovare il favore del botteghino; sia perché la parola eutanasia fa venire un senso di sconcerto, destabilizza chi la ascolta, pone un velo oscuro su chi la pronuncia.
Il film vorrebbe aprire un dibattito (lennesimo) sulla possibilità dellindividuo di scegliere il proprio destino, cadendo purtroppo in una serie di luoghi comuni. Miele ha unatmosfera inquietante, arrivando a essere orrorifico, nellindugiare sulla meticolosa uccisione dei malati.
La protagonista ha una fisicità forte: Irene – nome in codice Miele – interpretata da una bravissima Jasmine Trinca, conduce una vita tra nuotate, corse in bicicletta, amore per il suo compagno. Eppure la sera non trova di meglio che stordirsi nei locali con lalcol, parlare dei moribondi da sopprimere come di coniglietti, avere mal di testa persistenti. Perché? Anche lei, dietro lapparente vita da ragazza qualunque, si ritrova a fare i conti con le azioni del suo lavoro. Le azioni di unassassina.
Il lavoro segreto di Miele è ben remunerato: una busta piena di banconote da cento euro, per preparare delle iniezioni letali, delle bevande velenose, per coloro che chiedono la morte. Un servizio che presta a domicilio. Si svolge tutto con precisione, in maniera asettica: entra in casa della vittima, indossa guanti di lattice, prepara loccorrente per la fine. Cerca di tenere la coscienza a freno, ripetendosi che sono le persone a contattarla, a reclamarla, come se lanciassero un grido di aiuto. E che il suo scopo è intercettare quel grido, spegnendolo per sempre.
La fragile consistenza nel provocare e accettare una morte dopo laltra si rompe con lincontro dellanziano Grimaldi. La richiesta di morire dellIng. Grimaldi è causata dalla noia per la vita. Forse stanchezza, forse depressione, fatto sta che chiede espressamente a Miele loccorrente per la fine. Miele, tormentata dai dubbi, non accetta che a uccidersi sia una persona sana e instaura un dialogo con lanziano, facendo emergere un lacerante senso di colpa. Uninadeguatezza a percepire la vita, che sfugge a entrambi, vittima e carnefice.
Si può chiudere qui l’analisi del film, perché nonostante l’Ing. Grimaldi scelga di morire, Miele tornerà a essere la ragazza semplice di una volta, smettendo di esercitare la pratica dell’eutanasia. All’inizio ho scritto di luoghi comuni che attraversano la narrazione del film: il voler proporre l’eutanasia per malati terminali, una delle tante possibili opzioni, è fuorviante. Mostrare Miele come un angelo chiamato al capezzale, che fa scegliere la musica di addio alla vittima, è stucchevole. Il voler dipingere il suicidio assistito come pratica umana, per empatizzare con il moribondo, è umanamente sbagliato.
Il film si contrappone a un esempio reale di umanità, l’esempio che abbiamo sotto gli occhi. Al Dottor Mario Melazzini, primario al Day Hospital di Pavia, viene diagnosticata la SLA, la terribile malattia che poco a poco atrofizza il corpo, togliendo le capacità di respirare e parlare. Dopo l’iniziale disperazione, Melazzini ha raccontato di riuscire a vivere la malattia al servizio degli altri, aiutando i malati di SLA come lui.
Il limite del film dunque è che si guarda alla malattia da una prospettiva egoistica: quella di chi si affanna per nascondere il problema, far svanire la preoccupazione. L’intervento esterno per dare la morte e annullare il malato ci porta a considerare quanto poco valore diamo alla vita, credendo che appartenga a noi invece che a Dio. Per fortuna il personaggio Miele esiste dentro una pellicola di cinema, se camminasse veramente in mezzo a noi significherebbe che abbiamo bisogno dell’altro non per continuare a vivere ma per imparare a morire.