Nel 1967 vedeva la luce una delle serie televisive più originali e rivoluzionarie della storia del piccolo schermo, Il prigioniero, creata dallattore Patrick McGoohan, da poco reduce dal successo della serie spionistica Danger man. A più di quarantanni di distanza, Il prigioniero risulta essere ancora una serie moderna, tanto da ispirare (visivamente e in parte tematicamente) il mistery drama che ha cambiato il volto alla serialità televisiva, Lost.
Lattualissima storia di Numero 6, risvegliatosi nel misterioso Villaggio teatro della serie e costretto a interrogarsi sulla propria identità e sul suo essere un uomo o un semplice numero, erano lo specchio di una società travolta dalla Guerra Fredda, dalla contestazione giovanile, con riferimenti visivi alla Swinging London e alla psichedelia. Il prigioniero rifletteva gli spettri e i dubbi di unepoca, rivelandosi unottima cartina di tornasole per comprendere lo spirito di una generazione.
Lidea di un remake di una serie così importante e ancora oggi considerata un cult intoccabile in tutto il mondo, è più di una scommessa, è un rischio, e i creatori di questa miniserie (che in Italia mantiene il titolo originale, The prisoner) lo sapevano sin dallinizio.
Affrontare un nugolo di fans inferociti non è semplice e difatti la qualità tecnica di questo remake è al massimo livello: un Villaggio completamente nuovo che ricorda la Cuba degli anni Sessanta, una cura per i particolari dei costumi, delle automobili e della scenografia, una fotografia dallappeal cinematografico e una regia mai banale, sono sicuramente tra i punti di forza della miniserie, così come la solida prova recitativa di Sir Ian McKellen, nel ruolo del demiurgo Numero 2.
Era necessario, in un remake che avrebbe sicuramente fatto discutere, aggiornare la storia e le tematiche ai giorni nostri. In realtà quello che cambia è veramente poco, tantè che The prisoner ricalca spesso e volentieri le stesse tematiche e lo stesso percorso narrativo deloriginale, a discapito quindi delloriginalità del prodotto e, in fondo, delloccasione di parlare del nostro presente.
Ciò che risulta modernizzata è invece tutta la messa in scena, molto più cupa e angosciante, che sacrifica però uno degli aspetti migliori de Il prigioniero, ovvero quellumorismo cinico e nero tipico degli inglesi, che scorreva imperterrito per ogni puntata e che rimane ancora oggi uno degli aspetti migliori della serie.
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Insomma, il moderno “The prisoner” si prende troppo sul serio, un po’ come il suo protagonista. Il Numero 6 interpretato da Jim Caviezel (i più lo ricorderanno per avere interpretato Gesù nel “The passion” di Mel Gibson) non ha il carisma di Patrick McGoohan, cosicché il suo personaggio risulta spesso essere antipatico allo spettatore e, dato che è il protagonista, la cosa non è sicuramente un punto a suo favore.
A salvare in extremis “The prisoner” è sicuramente la sceneggiatura ben congegnata nel disseminare per le sei puntate indizi, dubbi e misteri, sciolgliendoli in maniera mai banale e con un finale più amaro di quello che ci saremmo aspettati.
Ma in fondo di questo remake avremmo fatto volentieri a meno. Il lavoro è generalmente apprezzabile (sicuramente meglio di quello che ci saremmo aspettati), tuttavia “The prisoner” non lascia il segno nello spettatore come faceva il suo predecessore. Si limita a catturarlo nei meandri di una storia senza però mai aggiungere altro che riesca a farlo riflettere in maniera inaspettata sulla sua condizione umana.