Ronald Neame era un onesto artigiano della regia, specializzato in avventure e gialli dal placido sapore british, che nel 1966 realizzò una graziosa opera candidata a tre Oscar dal titolo Gambit (sottotitolo italiano Grande furto al Semiramis). Dopo 46 anni, Michael Hoffman, artigiano non altrettanto dotato, ne realizza un remake piuttosto libero, dallo stesso titolo, che tradisce proprio la differenza di spessore tra i due registi.
Harry è un grigio curatore di mostre che lavora per il ricco collezionista Shabander. Stufo di essere umiliato dallarroganza del suo datore di lavoro, organizza una macchinazione astutissima per fregarlo: basta un dipinto di Monet, una copia perfetta realizzata dal Maggiore, amico di Harry, e una svampita e attraente texana. Ovviamente niente andrà come previsto.
Scritto, come ampiamente pubblicizzato, dai fratelli Joel e Ethan Coen, Gambit è una commedia di truffa, un heist-movie, come si dice in America, che però più che puntare sul colpo decide di virare verso la farsa dai risvolti tiepidamente sentimentali che proprio per questo fa sentire ancora di più la difficoltà della regia.
Il film, spostando lattenzione da un manufatto dorigine egizia a un classico dipinto impressionista, sembra volere essere una riflessione, quasi una parabola sotto forma di thriller, che racconta la lotta contro lavidità e per mantenere la propria dignità, sulla facilità della vendetta e limportanza della superiorità morale necessaria per non cadere negli errori che si vorrebbe evitare. Ma questo sotto-testo si perde nella scelta del regista di fare di Gambit un film comico, più un Blake Edwards male interpretato che un David Mamet.
Così, si scova un tratteggio dei personaggi frettoloso, una costruzione della trama poco centrata e, soprattutto, una regia che non pare in grado di gestire il ritmo e i meccanismi parossistici propri tanto del film di truffa quanto, e a maggior ragione, del cinema farsesco: la riprova è nella scena centrale dellalbergo, potenzialmente esilarante, ma che propria la goffaggine di Hoffman depotenzia.
Se Gambit strappa qualche risata allo spettatore, è merito di un Colin Firth assolutamente perfetto in un ruolo da imbranato totale, tra Peter Sellers e Fantozzi, protagonista del tutto atipico per un film del genere; molto meno utile Cameron Diaz, mentre un po’ sprecato il grande Tom Courtenay, in questi giorni nelle sale con Quartet. Il resto è un’occasione sprecata tanto da due sceneggiatori che non si sono impegnati più di tanto in questa sortita alimentare, quanto da un regista che non sa gestire il ritmo. Guardate l’originale, e giudicate le debite differenze.