Uscito dal carcere dopo aver scontato lennesima pena per furti e piccoli reati, il giovane e problematico Samuel deve riabilitarsi lavorando nellazienda agricola di un paese della provincia laziale. Linserimento non facile nella nuova realtà è aggravato dal rapporto turbolento con il tutor Vincenzo, scontro tra personalità caparbie e irrisolte. Ex stella del rugby e attuale allenatore della squadra locale, Vincenzo intuisce che il suo sport potrebbe essere la chiave per domare e far crescere questo ragazzo fragile e arrabbiato, alla continua ricerca di guai. Dopo le prevedibili difficoltà iniziali, Samuel inizia a scoprire cosa vuol dire far parte di una squadra e impegnarsi per un obiettivo comune, ed è cardine anche lincontro con Flavia, la figlia adolescente dellallenatore.
Cè molto ne Il terzo tempo, il primo lungometraggio (presentato al Festival di Venezia) di Enrico Maria Artale, regista neanche trentenne che ha scoperto la passione per il rugby girando il cortometraggio I giganti dellAquila sulla squadra abruzzese nel 2009. Dal momento che il cuore del film è costituito dal suo messaggio edificante e dal valore formativo (tanto che è stata pensata una distribuzione speciale nelle scuole), ovvero il rugby come scuola di vita e limpegno nello sport di squadra come riscatto da un passato sbandato, era importante evitare la facile retorica, con il rischio di risultati didascalici e melensi spesso visti in pellicole a tema sportivo. Artale ci è sostanzialmente riuscito, trovando il giusto equilibrio tra film indipendente e senza ruffianerie smaccatamente commerciali, ma allo stesso tempo abbastanza efficace e diretto per piacere a un pubblico vasto (se avesse una distribuzione accettabile), senza risultare autoreferenziale o pretenzioso.
Risulta fondamentale il lavoro fatto sui personaggi, la cui credibilità era fondamentale per la riuscita finale del prodotto, e in particolare sulle dinamiche che si innescano tra di loro, in particolare tra la figura del mentore e il protagonista, e tra questultimo e la ragazza che lo placherà con ferma dolcezza. I giovani attori Lorenzo Richelmy e Margherita Laterza sono pienamente adatti ai ruoli e mettono a disposizione del regista con partecipe impegno volti espressivi e corpi inquieti. Per Richelmy la prima prova in un ruolo complesso da protagonista può dirsi superata brillantemente.
Un po’ di ruvidezza in più nello stile non avrebbe guastato per rendere il tutto ancora più coinvolgente, visto che anche l’ambientazione, con le rarefatte atmosfere rurali, la pioggia e il fango dei campi da gioco, aiutava. Avrebbe giovato inoltre un maggiore spessore al personaggio di Stefania Rocca, il presidente della squadra, e uno spazio diverso al rapporto tra lei e l’allenatore (Stefano Cassetti), di cui si possono solo intuire la conflittualità latente e gli strascichi di un amore passato.
Poco importa però, perché il senso vero del film è condensato nel terzo tempo del titolo, quando al termine dell’incontro sportivo ci si ritrova tutti insieme, squadre e tifosi, vincitori e perdenti, e per qualche minuto si ricordano solo gli elementi di unione e si dimenticano quelli di contrasto. Un bel messaggio anche per il mondo del calcio da parte del “fratello minore” spesso poco riconosciuto.