un anniversario triste quello che ha spinto Daniele Vicari ha realizzare La nave dolce, suo nuovo film presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e in uscita nelle sale l8 novembre: i 20 anni dello sbarco dei 20.000, il giorno di agosto del 91 in cui migliaia di albanesi arrivarono a Bari in cerca di una vita migliore e finirono respinti in massa, per la prima volta nella storia della repubblica italiana, palesando i problemi del nostro Paese.
Il film intervista proprio molti di quegli albanesi che riuscirono a fuggire dallo stadio San Nicola, dove furono ammassati i profughi, o dal porto di Bari per ricostruire tutto ciò precedette e seguì lo sbarco, ma soprattutto quella settimana terribile, in cui si palesarono tutti i limiti strutturali, umanitari e politici dello Stato italiano.
Scritto da Vicari con Antonella Gaeta e Benni Atria, La nave dolce è un documentario di stampo classico, fatto di interviste e repertorio, che come i buoni documentari ha il pregio di indagare molto più a fondo del fatto raccontato, cercando di portare a compimento un affresco generale di un contesto, in questo caso di un Paese.
Infatti, sullo sfondo di un dramma che solo (quasi) per caso non è diventata tragedia, di un esodo che prende le forme bibliche delle speranza e quelle realistiche della disperazione, La nave dolce racconta il modo in cui il Paese reagì a quello che fu il primo evento del genere, in un momento in cui limmigrazione non era ancora una questione sul tavolo della cosa pubblica: la solidarietà delle istituzioni locali stroncata dallinadeguatezza strutturale di enti locali e non solo, i deficit umanitari dovuti alla burocrazia, lincredibile ostilità e incompetenza di molte figure politiche, tra cui resta memorabile lo scontro diretto e pubblico tra larroganza dellallora Presidente della repubblica Cossiga e il sindaco di Bari.
Ma Vicari, su uno sfondo bianco straniante sul quale intervista personaggi comuni e altri più famosi, come il ballerino Kledi Kadiu, e attraverso un incredibile lavoro di ricerca di immagini e di montaggio (di Benni Atria), sa anche rendere la forza umana della vicenda, il sorriso dellavventura, del pericolo scampato, ma anche la cattività che rende bestie, dando prova di come il documentario – anche quando come questo non riesce a fronteggiare del tutto limponenza quantitativa del materiale – è soprattutto questione di onestà dello sguardo.
E allora ben venga il gioco sui tagli e le porzioni d’inquadratura, la colonna sonora di Teho Teardo che amalgama la musica elettronica coi suoni e le parole d’epoca se non celano, ma esaltano, la voglia di capire e comunicare. Proposta che ogni film, non solo un documentario o affini, dovrebbe fare propria.