Lars Von Trier è il regista di Nymphomaniac, film scandalo presentato alla Berlinale e annunciato da uno stillicidio di mirati prewiew collocati nel web in modo da creare una specifica tensione all’evento. Di lunga durata, è stato diviso in due tempi, con proiezioni lontane giorni tra loro. Il cast è ricco di nomi importanti, da Charlotte Gainsbourg, la protagonista, a Uma Thurman (notevole donna tradita), da Shia LaBeouf (giovane amante e marito) a Stellan Skarsgard (Seligman, il buon samaritano), passando pure per Willem Defoe.
La storia è quella di una ninfomane, Joe, che da piccola decenne in gita scolastica stesa su di un bel prato ha il suo primo orgasmo spontaneo durante l’apparizione celestiale di Messalina con il velo bianco e in braccio un bambino; a lato la dea Babilonese dell’amore in groppa a un toro. Pochi anni dopo cerca un giovane meccanico, con cui vuole perdere la verginità; lui sbrigativamente la violenta, lei si allontana dolente. Da qui in poi la sua infinita serie di amanti, anche dieci al giorno, per saziare la sua bramosia. Non si smorza affatto neanche mentre assiste il padre morente (il bravo Christian Slater), né quando non riesce a provare più l’orgasmo, ormai consumato come il suo corpo: lascia marito e figlio e si rivolge a un sadico, che la frusta, anzi, la flagella, le fa dono di “quaranta colpi come a Cristo”, e in quella tortura lei ritorna alla fonte del piacere.
Il film prosegue con la sua scelta di allontanarsi dalla società e dalla legalità: si lega al mondo del recupero crediti, usa il ricatto sessuale, scopre l’amore saffico. Ma la sua giovane amante intreccia una relazione con il suo ex marito; insieme la picchiano e la abbandonano in un vicolo: la trova l’anziano Seligman che la porta a casa sua e le fa raccontare la sua vita; il film comincia da questa scena e si articola attraversando una serie conseguente di flashback, presentati come otto atti teatrali, con titoli e sipari. Finale con la pistola, a sorpresa.
Molti l’hanno definito un porno-soft, altri un porno con pretese filosofiche; la critica in genere non lo ha promosso a pieni voti, anzi, la grande attesa ha deluso un po’ tutti. In effetti, è un film difficile da definire, nemmeno troppo piacevole da guardare, scontenta: gli intellettuali, per le sue molte lacune nella trama, slabbrata e forzata con pretese esistenziali e ironiche; gli amanti del porno, perché non lo è, la sua rappresentazione del sesso è iconica, le sue immagini hanno sempre un rimando metaforico: la fessura vulvare che si apre in un occhio, l’erezione involontaria che denuncia il pedofilo… Ma Lars è comunque un regista geniale: splendide immagini, sceneggiatura notevole: certe frasi te le annoti volentieri. Eppure, credetemi, sa rendersi odioso, scomodo. Perverso?
Questo film ha dei rimandi: con Shame, di Steve McQueen, senza però la disperante bravura di Fassbender e le sue potenti lacrime; con Eyes Wide Shut, di Kubrick, ma non ha la sua tensione erotica, misterica. È però molto interessante la sua visione, vietata giustamente ai minori, per una questione di consapevolezza più che di esposizione, perché è fondamentale per apprezzarlo avere già chiaro in mente e nel cuore cosa sia il sesso, la profonda e splendida sessualità umana: questo film infatti descrive bene tutto ciò che non è. Tutto ciò che però può diventare, anzi quello a cui viene ridotta, confinata, menomata.
Parla di sesso, non della sua verità ma della sua distorsione. Parla del piacere, la protagonista ha migliaia di orgasmi, ma non della felicità (lei non è mai felice). Parla di soddisfazione, non di compimento. Joe chiede continuamente all’amante: “Riempi tutti i miei buchi” e nemmeno due neri ben dotati ci riusciranno… Sconfina continuamente nel blasfemo: la religione cristiana è sfidata, paga la misoginia tipica soprattutto di certo luteranesimo; ma si spinge oltre, non è mai solo una delirante o ironica derisione dei simboli sacri, contiene a ben guardare una terribile nostalgia per la potenza rappresentativa di tali simboli.
Von Trier forza il sacro riducendolo nel profano ma ne invoca la presenza: lo cita e lo chiama. C’è la presenza del corpo, il corpo carnale, il corpo sessuale, ma non la sua soddisfazione, il sesso diventa coazione a ripetere, tanto da infrangere pure la maternità. La protagonista rimane incinta per errore, sceglie di fare un taglio cesareo per non rovinarsi la vagina con un parto: la sua vagina è egoista, può solo ingoiare, introiettare, ingurgitare l’altro, da lei non esce nulla, meno che mai la vita. Questo povero figlio sarà lasciato solo mentre lei va per amanti, ma anche il padre lo lascia, in preda all’incuria della madre: finirà in affidamento.
Ripeto, questo film descrive in maniera esaustiva (a tratti esasperante) i molti usi che un essere umano fa della propria sessualità come se fosse un surrogato per contenere le sue nevrosi, un contenitore in cui gettare la propria disperazione, la violenza, i propri difetti più o meno terribili, i peccati; l’insoddisfazione infinita di un essere finito.
Il sesso però non regge tale funzione, il vaso si rompe, la vita presenta il conto. Lars Von Trier è da anni ormai afflitto da una forte depressione e questo ci consegna certo una buona chiave di lettura della sua opera; anche se questo non basta. Non basta liquidarlo confinandolo nell’area della mania depressiva (anche se il titolo aiuta), il mondo è pieno di uomini/donne come li descrive il regista: sadici, pedofili, devianti, maniaci, pornografi, sesso-dipendenti, che più ne ha, ne metta. Il film non li assolve, ma nemmeno li condanna. Seligman, il vecchio che accoglie Joe, si definisce ateo e assessuato, è ancora vergine: ma tenta di averla, sedotto dal suo racconto, attratto dalla sua perversione.
Von Trier gioca sulla contraddizione, ogni scena è contraddittoria in sé: non ambigua. I suoi protagonisti agiscono e reagiscono in modo contraddittorio, fanno, o mostrano, una cosa significandone l’altra, in pratica mentono in continuazione lasciandoci in una posizione estremamente scomoda, incapaci di risalire al vero. Fondamentalmente è un film sulla menzogna, sulla capacità dell’uomo di continuare a mentire a se stesso, nell’illusione disperante e disperata di sapersi bastare e soddisfare e infine autoassolvere, risolvere, ironicamente e platealmente.
Mente allora anche sul sesso: lo descrive senza però dire cosa davvero è, cosa sia il desiderio, dove la bellezza, quale il senso, e soprattutto cosa c’entra con l’amore; forse perché nemmeno lui lo sa.