L’ultimo film di Tim Burton abbandona le atmosfere surreali e fiabesche per raccontare una storia vera, la vicenda dell’artista americana Margaret Keane che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, diventò famosa per i quadri con i bambini dai grandi occhi tristi, specchi della loro anima. Ma nessuno, all’inizio, sapeva che a dipingere era lei. I meriti erano attribuiti al marito, Walter Keane, un istrione convinto di essere un genio che convinse – e costrinse – la moglie a tacere la verità e a permettere al pubblico di credere che fosse lui l’artista.
Scott Alexander e Larry Karaszewski, sceneggiatori di Big Eyes, esperti di biopic e autori anche di Larry Flint e di Ed Wood, costruiscono una storia convincente e affascinante, che delinea il ritratto di una donna di talento in una società dominata dagli uomini e ne mostra il percorso di crescita e di emancipazione. Margaret è un’artista vera, la cui anima trova espressione nei quadri che rappresentano il senso di stupore, di curiosità e di fragilità tipico dell’infanzia, mentre il marito è un business man estremo e furbo come una volpe, portato per gli affari e non per l’arte. A suo modo, in effetti, anche Walter è geniale, perché riesce a trasformare l’arte in un fenomeno di massa: le riproduzioni dei dipinti della moglie finiscono nei supermercati, sulle cartoline e nelle vetrine dei negozi.
Nonostante fossero le più vendute, all’epoca le opere di Keane non erano apprezzate dalla critica, che le considerava kitsch. Il film si astiene dal giudizio sul valore artistico per riconoscere invece l’autenticità dell’ispirazione, puntando sulle scelte difficili del personaggio di Margaret nel contesto di quegli anni. Di fronte alla prospettiva di vivere da madre single senza la sicurezza di potersi mantenere, il matrimonio con Keane sembra una vera e propria ancora di salvezza. Se inizialmente poteva essere amore, l’unione si rivela ben presto un patto d’affari – il talento di lei unito alla capacità di promuovere di lui – e una gabbia in cui i sentimenti non hanno più spazio.
Il film si muove sul confine tra fiaba e realtà, nei colori, nei paesaggi, nel contrasto tra Margaret rinchiusa nella torre e Walter che inganna lei e il mondo intero. Amy Adams nel ruolo della protagonista conquista con l’apparenza vulnerabile e ingenua, quasi fanciullesca, mentre Christoph Waltz interpreta Walter rendendolo un personaggio esagerato, istrionico, un cattivo da cartone animato che si muove come una iena fuori dalla porta dello studio della moglie, per impedirle di fuggire dalla casa e dalla menzogna.
Emerge così il ritratto affascinante di una donna che soffre, ma che impara anche a sfidare una società dominata dagli uomini, fino a trovare la forza di salire in macchina con la figlia e di fuggire alle Hawaii: da qui muove causa contro il marito per dimostrare di essere la vera artista.
Tim Burton ci regala un film per adulti allo stesso tempo malinconico e incoraggiante, che nonostante gli eccessi di Waltz trasmette un senso di verità, di empatia, intrecciando la riflessione sull’espressione artistica con la vicenda tutta umana della ricerca dell’emancipazione e della fiducia in sé necessaria a vivere la propria vita senza paura.