Non dico mai “Il libro era più bello”, dico sempre, “Il film è bello, ma in modo diverso”. Penso sia questo lo spirito giusto per affrontare la trasposizione cinematografica de “La versione di Barney” del canadese Mordecai Richler, film che ci fa confrontare nuovamente con l’annosa questione del passaggio dalla parola scritta all’immagine in movimento. In una trasposizione di questo tipo quindi, bisogna avere bene in mente che letteratura e cinema vivono di cose differenti, pur avendo un risultato simile.
Il libro è un’immersione graduale e profondissima in una storia, un’immersione che, nella sua lentezza, ci dà la possibilità di entrare in profonda sintonia con i luoghi e i personaggi che animano la storia. Il film, invece, è un salto da un paracadute, un’esperienza energica e adrenalica, in cui lo spettatore è sin da subito catapultato nella storia, sballottato nei luoghi, nell’epoca, a fianco dei personaggi. Al cinema l’emozione non è l’individuale sussurro del libro, ma è una grande orchestrazione in cui molti elementi (attori, musiche, regia, montaggio) contribuiscono a dare forma ad essa.
“La versione di Barney” diretta da Richard J. Lewis e scritta da Michael Konyves (ma sarebbe dovuta essere scritta dallo stesso Richler) non è “La versione di Barney” uscita nelle librerie nel 2001. una cosa diversa e la colpa non è certo imputabile allo sceneggiatore che, a dire il vero, riesce ad adattare il romanzo in maniera cinematograficamente valida, con una sceneggiatura che diventa una buona struttura portante per la pellicola, grazie soprattutto ad un uso accorto dei flashback. Ma noi, lettori e spettatori, a qualcosa dobbiamo rinuciare e, lo sceneggiatore, decide di farci rinunciare alla brusca, cinica e razzista unicità di Barney.
Il risultato è un film che, se confrontato con il romanzo, risulta essere decisamente mediocre nella sua struttura a flashback così incasellata (nel romanzo, seppur presente, la stessa struttura è una sorta di amalgama senza forma tra passato e presente) e in un personaggio eccessivamente edulcorato e smussato nel suo caratteraccio.
Eppure, dobbiamo ammetterlo, il film arriva fino alla fine camminando sulle sue gambe, raccontandoci una storia che sa divertirci ed emozionarci in un delicato equilibrio tra commedia e dramma grottesco, ridotto sì a grande storia d’amore, ma che, attraverso essa, riesce a raccontarci la vita complessa di un uomo. Se una critica però dobbiamo farla, quella certamente va alla regia di Richard J. Lewis, che immerge tutto in un’atmosfera anonima e poco incisiva, dove il Canada è un mondo grigio-azzurro e Roma è un tempio giallo e rosso. Nella regia c’è poca inventiva non solo nelle inquadrature, ma soprattutto in un montaggio sin troppo didattico e senza mai un attimo di coraggio nel proporre qualcosa di più temerario.
Il libro ci immerge, il film ci catapulta. E a trovarci davanti al volto triste e cinico di Paul Giamatti, non si può non pensare che lui e solo lui avrebbe potuto interpretare Barney Panofsky. Giamatti ci regala un’interpretazione intensa che si destreggia tra diversi toni (dramma, commedia, grottesco, comico) con una facilità e una sicurezza davvero invidiabili. La sequenza in cui distrugge il salotto in preda alla rabbia (e che drammatica e commuovente rabbia!) è un momento di grande emozione. È Paul Giamatti la vera punta di diamante della pellicola, un attore che aveva finalmente trovato il ruolo della vita, purtroppo non supportato a dovere da questa grande orchestra che è il cinema.
Il film è quindi meno bello del libro? No, è solamente diverso.