Trovo sempre più difficile affrontare il cinema italiano. Che non cè. Perché non fa ridere, non fa piangere. Non fa riflettere. Non permette di trascorrere un paio di ore in totale leggerezza. Lunica emozione che lascia è molta indifferenza. Mazzacurati, con il suo La sedia della felicità, non è da meno. Anzi. Parte con nobili intenzioni, agguantando il ceto medio messo in ginocchio dalla crisi e raccontando la fatica del tirare a campare di chi non ha più nemmeno gli occhi per piangere. Figurarsi la prospettiva di un futuro.
In questo, a essere onesti, Mazzacurati è molto chiaro. I suoi due protagonisti, Bruna (Isabella Ragonese), estetista, e Dino (Valerio Mastrandrea), tatuatore, sono schiacciati dai debiti. Oltre ad avere addosso una sfortuna esistenziale che travolge anche la vita privata. Sono dei poveracci. Ecco. E il bagliore di un futuro migliore si presenta loro sottoforma di una sedia nella cui imbottitura è nascosto un tesoro di inestimabile valore.
Inizia così la corsa contro il tempo alla ricerca di questa piccola ma grande fortuna. Percorso irto di ostacoli che Mazzacurati esaspera, affaticando, nel contempo, anche noi che guardiamo e descrivendo una storia che, per quanto genuina, straripa nelleccesso del sopra le righe. Per cui tutto, ogni singolo personaggio, diventa macchietta. Compresi Bruna e Dino, anche se nel loro caso il regista si sforza di drammatizzarne almeno un po i contorni.
Il problema non è laver scelto la strada della caricatura. Né di aver deciso di costruire una trama in cui a ogni cambio scena cè un imprevisto. La questione che rende La sedia della felicità un film evitabile è la pochezza dellinsieme. Cosa possa restare di questo film, a visione completata, è difficile da dirsi. Perché non cè Fellini dietro la macchina da presa a disegnare ogni gesto ed espressione come fosse il più denso di significati. Né Rossellini a raccontare la crisi dellItalia – e nella fattispecie del nord-est – con la crudele schiettezza del neorealismo. Cè solo, ci pare di poter dire, tanta mediocrità, soprattutto nella penna che a un certo punto, stanca anchessa degli imprevisti, smette di scrivere. Così devessere stato costruito il finale.
Il nord-est, se a Mazzacurati fosse per caso interessato raccontare questo angolo d’Italia, esce molto male da questo dipinto. Macchiette e caricature che avrebbero potuto mettere in rilievo in modo divertente l’anima genuina di questa terra e invece ne deriva un immaginario povero e gretto. Non tanto per Bruna e Dino, quanto per la pochezza dei personaggi pacchiani che loro incontrano. Dal fornitore dei macchinari per il centro estetico di Bruna al prete assetato di denaro che vende persino il proprio crocifisso per ottenere ciò che tanto brama: la sedia della felicità.
C’è un certo imbarazzo verso la fine. Quando si pensa di essere finalmente arrivati in fondo al tunnel e invece il peggio sta per arrivare.