La macedonia di favole non è un’idea nuovissima negli ultimi anni, da Shrek fino alla serie tv “C’era una volta”, ma prima di tutti è arrivato “Into the Woods”, musical del 1986 scritto da Stephen Sondheim e James Lapine sulla scia del saggio “Il mondo incantato”. Dopo di 20 anni di tentativi andati a vuoto, Disney è riuscita a rendere un film l’opera teatrale grazie alla regia di Rob Marshall, già premio Oscar per Chicago.
La trama mescola Cenerentola, Raperonzolo, Jack e il fagiolo magico e Cappuccetto rosso per raccontare la storia di una coppia senza figli che scopre che la loro sterilità è frutto di un incantesimo di una strega: per romperlo dovranno portarle una mucca bianca, un mantello rosso, dei capelli dorati e una scarpetta entro tre notti. Ma l’avventura avrà conseguenze inaspettate.
Scritto dallo stesso Lapine, Into the Woods è un’avventura musicale che pone al centro, come sempre in casa Disney, l’importanza dei legami familiari anche se alternativi, la difficoltà nell’allevare un figlio e nell’essere genitori e il lato oscuro dei desideri che le fiabe celano dietro loro attraverso un meccanismo ingegnoso e fedele allo spirito di molte favole.
Il nocciolo del film come dell’opera teatrale è quello di prendere gli archetipi alla base dei racconti e del folklore per cavarne, come fa il saggio di Bettelheim di partenza, il minimo comune denominatore, lì in chiave psicoanalitica qui in chiave narrativa, cercando di dare spessore melodrammatico – anche in senso musicale – alle storie che s’incontrano, si scontrano, si ribaltano e si mescolano.
Filtrato da un’inevitabile ironia, Into the Woods ha il difetto capitale di aggrapparsi in modo pedissequo al musical originale, senza ravvivarlo, adattarlo, renderlo davvero cinematografico per esempio nell’uso di scene e montaggio, nel toglierne una buona mezzora di fronzoli e sotto-trame che nell’ampiezza teatrale non sembrano di troppo come sullo schermo, nel bonificare il film da un’impersonalità dello sguardo e della messinscena che sembrano un fardello delle produzioni Disney e che soffocano anche progetti interessanti.
Marshall impantanato in un film statico confonde il ritmo con la frenesia e rende il film confuso, senza far brillare le partiture di Sondheim e limitandosi a gestire il traffico di un pugno di bravi attori: Emily Blunt e Anna Kendrick sono praticamente perfette, con la seconda che è una Cenerentola di molto migliore di quella di Branagh, i comprimari hanno facce e fisici giusti, Meryl Streep all’ennesima candidatura all’Oscar riesce a strappare brandelli di disperazione dal solito personaggio gigionesco che ultimamente interpreta spesso.
Manca la magia, l’incanto, la passione di un musical: peccato quasi mortale.