La riflessione sarà facile, ma non si può negare che con l’Amministrazione Obama siano cresciuti in numero e qualità produttiva i film che raccontano la genesi e l’evoluzione del popolo afro-americano. Non semplici storie di razzismo, ma film che raccontano la storia e l’evoluzione culturale, la consapevolezza del black people. Django Unchained (eccezione perché diretto da un bianco, e infatti alta si è levata la voce di Spike Lee) e 12 anni schiavo, The Butler e ora Selma – La strada per la libertà, opera seconda della regista di colore Ava DuVernay.
Che racconta per l’appunto una fase centrale dell’emancipazione dei neri da quella schiavitù illegale ma accettata, da quell’apartheid sotto mentite spoglie che si praticava soprattutto negli stati del sud: la marcia che domenica 7 marzo 1965 si svolse a Selma, in Alabama, per chiedere al governatore dello Stato di far votare i neri, come prevede la legge. Una domenica di sangue che innescò una serie di reazioni politiche e umane rivoluzionarie: al centro del film, la figura di Martin Luther King.
La sceneggiatura di Paul Webb racconta questo evento come centrale, concentrandosi sul prima e sul dopo e trasformando un mélo storico in un dramma politico, cercando più le strategie politiche che le cause del razzismo, facendo di Selma – La strada per la libertà un punto fermo del percorso di auto-rappresentazione dei neri al cinema.
Non solo perché questa auto-rappresentazione è spesso passata dai bianchi e da una visione “paternalistica”, ma soprattutto perché DuVernay passa dal cinema indipendente del suo primo film direttamente al canone hollywoodiano, con l’utilizzo di schemi e modalità apparentemente classiche che la regista ravviva, piega alla propria volontà narrativa, sposta dal racconto politicamente corretto alla visione della condizione attuale dei neri d’America: Selma parla anche, se non soprattutto, dell’attualità dei neri d’America attraverso lo specchio della Storia, racconta dello strapotere della polizia e di come lo esercitano tutt’oggi contro la popolazione di colore, tanto che la canzone che ne accompagna i titoli (Glory, candidata all’Oscar) cita esplicitamente il caso di Ferguson e del ragazzo ucciso dalle forze dell’ordine.
Ma soprattutto, nel puntare l’obiettivo sui risvolti e i meccanismi politici dietro alla lotta per i diritti civili, con il cinismo e l’idealismo a stretto contatto (King avvolto dal dilemma morale di mandare una popolazione al probabile massacro per una causa superiore), quello di DuVernay è un film che fa appassionare facendo dimenticare l’origine istituzionale del suo racconto, ricreando la tensione emotiva e morale di un’intera nazione al cospetto di un evento storico.
Regista molto intelligente, DuVernay condensa un materiale da miniserie in un film compatto, appassionante e completo, che regge da tutti i punti di vista – dalla messinscena alla narrazione, dagli attori all’approfondimento – dimostrando una maturità che si spera posso solo evolversi.