Carmine ha 19 anni. E’ nato a Castellammare di Stabia, ma si trasferisce in provincia di Como quando frequenta la terza media. Ha avuto una brutta esperienza da giovanissimo: tre giorni nel carcere minorile di Milano, il Cesare Beccaria, a diciassette anni. Le forze dell’ordine l’hanno scoperto con un grosso quantitativo di hashish. Anche se afferma fosse per uso personale, il giudice emette la propria sentenza definitiva: è spaccio. Sette mesi in comunità e tre agli arresti domiciliari. La sua maturità non può festeggiarla insieme a parenti, amici, persone care: è in comunità. Ma sono i tre giorni di carcere minorile che l’hanno segnato di più. La mancanza della sua ragazza, conosciuta alle superiori, è la molla che lo spinge a riflettere sul proprio errore, sulla propria vita. Carmine percorre 1200 chilometri in treno per arrivare a Roma. Rebibbia è il carcere dov’è rinchiuso Giuseppe Massa, che è stato condannato a una pena di ventidue anni per furto e concorso in omicidio. Carmine entrando a Rebibbia ha un impatto devastante: è l’ulteriore conferma per chi, in un luogo simile, non vuole mai più mettere piede. I due s’incontrano e scherzano subito sulla comune origine campana. L’impressione di Carmine al suo primo incontro con Giuseppe è di avere di fronte una persona che appare felice agli altri, nonostante la pena che deve scontare.
Giuseppe è di Bacoli, provincia di Napoli. Il 20 settembre del 1999, irrompe in casa di un’ottantaduenne in compagnia di un complice. “Dovevo fare solo il palo: quel giorno non sono uscito di casa per compiere un omicidio”, cerca di giustificarsi Giuseppe. La rapina finisce male. Maria Gamba, la vittima, viene legata e percossa perché i ladri vogliono farsi confessare il nascondiglio dei gioielli. Durante il programma, scorrono le immagini del servizio del telegiornale dell’epoca: “Pochi oggetti preziosi e alcune migliaia di euro il magro bottino che è costato la vita all’ottantaduenne”. Due balordi, li definisce il giornalista. Giuseppe Massa ha una sua teoria sull’omicidio: secondo lui è stata uccisa perché ha visto troppo, ha riconosciuto il complice e doveva essere messa a tacere. La sentenza, in ogni caso, è lapidaria: 22 anni. Giuseppe ne ha scontati già dodici e ne restano cinque. Nel primo anno di detenzione è stato in diciotto carceri diversi: Poggioreale, Secondigliano, il manicomio criminale di Aversa. Poi ancora Orvieto, Spoleto – nel supercarcere dove ha trascorso cinque anni – Torino, Bologna.
Giuseppe chiama la propria cella il “box dei cavalli” perché, spiega, “qua entrano solo i cavalli di razza”. La cella singola, infatti, è per Giuseppe un privilegio: in un certo senso, ha avuto la “fortuna” di una condanna alta. Si perché se sei in carcere da molti anni, riesci a scalare una speciale graduatoria: puoi guadagnare “punti” per ottenere una cella che sia solo tua, per sentire meno il peso del sovraffollamento. In Italia ci sono duecento carceri, con ben 65mila detenuti. Circa duecentomila in più del massimo consentito: il 30% di esuberi. Giuseppe quindi può ritenersi fortunato. Ma anche così, gli spazi sono angusti: “Sei rinchiuso in cinque passi”, spiega. 8 metri quadri, la grandezza dell’abitacolo di un auto. Un auto che però deve restare ferma.
Giuseppe spiega a Carmine il perché dei suoi furti.
Non era la situazione difficile del suo quartiere o della sua famiglia a spingerlo a delinquere; e neanche la necessità di comprare la drog. Lui fa parte, secondo le sue stesse parole, della “terza categoria” di delinquenti: la categoria “consumistica”. Ovvero di quella categoria di persone a cui piace fare la bella vita: “Mi piacevano le belle ragazze e cercavo in ogni modo di essere notato da loro”, nonostante l’aspetto non proprio da adone. E quindi rapinava e commetteva furti per potersi permettere belle auto, ristoranti di lusso, regali importanti. Eppure all’età di venticinque anni, la famiglia tenta di allontanarlo per un po’ da quel paesino in provincia di Napoli e dal suo stile di vita malsano: vive per qualche mese a Brescia, dove lavora in una ditta produttrice di cerchi in lega per macchine di grossa cilindrata. Ma la bella vita di Napoli è un’attrattiva troppo forte per lui
Quando si ha una condanna così alta, la situazione più difficile da sopportare è la difficoltà nell’intessere rapporti interpersonali. Giuseppe, in sostanza, non ha mai visto la propria figlia fuori dal carcere: Roberta è nata quattro mesi dopo l’inizio della sua pena. Nonostante questo lei è l’unica ad andarlo ancora a trovare. Giuseppe ha altri due figli. Di uno di loro ha scoperto l’esistenza solo dieci anni dopo la sua nascita. Il suo primogenito, infatti, ha vissuto per dodici anni in Germania, poi a quindici arriva a Napoli, mette su famiglia. Nell’ultimo periodo ha reso Giuseppe nonno. Anche se non lo conosce quasi per niente. Dal 2005 non ha più alcun dialogo con la sua ultima convivente. Il contatto fisico con una donna è un’assenza molto pesante da sopportare. Un punto sul quale il giovane Carmine non può che trovarsi d’accordo. In fondo se lui è riuscito a cambiare strada è stato proprio grazie alla donna che ama.