L’an trova, sota a un muc de carton/l’an guarda’ che’l pareva nisun/l’an tucà che’l pareva che’l durmiva/lasa sta che l’e’ roba de barbon. Mi vengono le lacrime a risentirlo cantare, da vecchio con la sua voce increspata e più grave, da giovane con quel vocino che sembra una parodia, questinno alla carità che per tanti di noi rappresenta il cuore vero, profondo, di Enzo Jannacci. E cè tutto il brivido di una Milano perduta, dentro quei versi che solo noi finti milanesi cresciuti fra nonni, zii, cugini di Puglia (nel suo caso il papà) possiamo sentire riecheggiare in quella lingua. la Milano perduta – forse già allora, negli anni del boom della carità silenziosa, saggia, operosa, che non creava distanze ma integrava, canzonava (siamo tutti un po terùn) ma abbracciava. Di questo, da tanti anni, ho sentito scandalizzarsi Enzo, così come un altro grande legato a questa città, Giovanni Testori. Non li abbiamo più a cuore, noi milanesi, i poveri, i tossici, i sofferenti: dal barbon trovato sul Forlanini fino alla carezza che solo il Nazareno avrebbe potuto dare alla povera Eluana, oltre ogni schieramento o ideologia. E noi li ascoltavamo con un po di sufficienza questi grandi artisti, rispettosi ma in fondo convinti che fossero anche un po fissati con questa storia degli ultimi, ormai era il tempo del mercato che avrebbe risolto tutto Così oggi immagino la sua faccia, sempre stralunata ma fattasi più dolce e luminosa nella malattia, nel sentire alla tv che se nè andato la stessa sera di due poveri immigrati clandestini, morti in mare per assideramento mentre cercavano di raggiungere le nostre coste. Avrebbe scosso la testa, triste: ma per loro.
Che roba strana, lEnzo, che muore di venerdì santo, quasi come fanno i santi. E so che sta cosa lui la prenderebbe sul serio, e comincerebbe ad inoltrarsi in una di quelle spiegazioni che non sapevi mai dove sarebbero andate a parare, fino a stupirti, fino a stremarti. In apparenza tutto in lui era fragile, inafferrabile: tutto fuorché il talento, il dono ricevuto. Avevo preso a volergli bene per riflesso, per colpa del suo amico, e per me anche maestro, Giorgio Gaber. Lui, nasone come Enzo lo chiamava, con la consueta lucidità me laveva inquadrato: E un cialtrone, niente da fare. Ha un talento pazzesco, straripante, infinitamente più ricco del mio ma a volte lo butta via, lo spreca, lo regala. Pianista di livello, jazzista, teatrante, attore, cantante originalissimo e sghembo, autore struggente, cardiochirurgo dicono molto preparato (anche se a me ha solo e sempre parlato dei suoi mutuati milanesi: troppo artista per rischiare): quante volte quel troppo lo ha frenato. Ricordo concerti meravigliosi, perfetti come un orologio (ultimamente a fargli da maestro/discepolo in questo campo era suo figlio Paolo: serissimo, lorgoglio di papà) e serate da teatro dellassurdo, con monologhi infiniti che si mangiavano tutto, anche la musica. Dischi e canzoni taglienti come diamanti e altri non alla sua altezza. Interviste ma di certo era colpa mia da cui uscivi cambiato e altre in cui taccuino alla mano non ti ci raccapezzavi più. Poi ci fu una di quelle sere in cui esserci è stato un miracolo. Idea folle di Gaber, allora direttore artistico del Teatro Goldoni di Venezia: un Aspettando Godot di Beckett con in scena Giorgio, Enzo, Paolo Rossi e Felice Andreasi. E di colpo proprio Felice, lattore più attore dello strano quartetto, nel ruolo di Pozzo, ha un vuoto di memoria e manda in vacca tutto, senza remissione, senza che alcun suggeritore possa rimediarvi. Così ecco un Beckett che per unora, indimenticabile, diventa davvero teatro dellassurdo, con Gaber e Jannacci che scoppiano a ridere e Rossi che finge di dormire, anzi forse dormiva davvero
Insomma, è in quel casino che ho cominciato a voler più bene a Enzo: vedendoli, lui e Gaber, complici. Complici come lo erano stati da ragazzi, in questa nostra città dove allora si cresceva nello strapotere/amore del Piccolo Teatro, che genialmente sapeva riconoscere questi suoi figli stralunati e dargli una chance. Così, una sera di tanti anni fa, finì che condividemmo un momento importante. Dalia e Ombretta Colli, la famiglia Gaber, avevano inventato un compleanno diverso per i 60 anni di Giorgio. Quella sera lo portarono con un trucco (un sopralluogo per un eventuale nuovo spettacolo) al Lirico di Milano, lo introdussero per un controllo delle luci in palcoscenico e lì… sorpresa! Il palco era diventato luogo di festa: tavoli apparecchiati, fiori, fotografie, e tutti gli amici, vecchi e nuovi, di una vita. A me e a mia moglie fu assegnato il tavolo con Enzo, Giuliana sua moglie, e il figlio Paolo. Una serata affettuosa, anche un po’ imbarazzata, fra milanesi che con pudore condividono uno stesso affetto, una stessa amicizia (quel palco poi, per noi non-artisti era davvero ingombrante…).
Ora Enzo e Giorgio se ne sono andati, e quel palco è un buco scassato, da tempo silenzioso, che il sindaco Pisapia fatica a far rinascere (anche se ha promesso di dedicarlo a Giorgio: perché non pensarlo adesso come Teatro Gaber-Jannacci?). Mai avremmo pensato, trenta, quaranta anni fa, che questi grandi artisti come Enzo, Giorgio, Lucio, che abbiamo stimato e avuto la fortuna di conoscere da vicino, sarebbero morti. E’ un dolore strano, una commozione strana quella che ci prende. E’ un silenzio in cui riecheggia tanta bellezza – arricchita del dono di una confidenza speciale – che però non è solo nostra, è condivisa: da tanti, da tutti.
“Che scuse’, ma mi vori cuntav/d’un me amis che l’era anda a fa’l bagn/sul stradun, per andare all’idroscalo/l’era li’, e l’amore lo colpi’./El purtava i scarp del tennis, el parlava de per lu/rincorreva gia’ da tempo un bel sogno d’amore./El purtava i scarp del tennis, el g’aveva du occ de bun/l’era il prim a mena via, perche’ l’era un barbun…”. Grazie Enzo, ciao.