Saranno in molti a cimentarsi, in questi momenti di accanimento verboso post mortem, nel tentativo di riassumere in poche righe la versatile genialità narrativa e linguistica di Furio Scarpelli, o sarebbe meglio dire, per rispetto della giusta denominazione artistica, di una delle due colonne della firma Age e Scarpelli. Quello che qui si tenterà di ricordare, in poche parole, è invece solo uno e forse il più geniale dei tanti lasciti del grande sceneggiatore: la storia e la lingua del cavaliere Brancaleone da Norcia.
E anche questa, in realtà, risulta essere impresa assai ardita. Molti sono gli studi, i commenti, le discussioni intorno a questa straordinaria creazione artistica; e moltissime sarebbero le riflessioni da proporre anche solo per dare un quadro appena accennato. Ma proviamo comunque a dirne in breve.
Abacuc, e se anco fosse?: è questa improvvisa domanda, rivolta con un leggero sorriso allamico tesoriere timoroso dessere ormai giunto alla fine dei suoi giorni, una delle frasi più struggenti e caratterizzanti la personalità e sensibilità di Brancaleone. Dinnanzi alla morte, il Don Chisciotte di Norcia fa per un solo istante un passo indietro rispetto allampollosa immagine che sempre cerca di dare della propria esistenza, e ne riconosce con inusitato realismo lestrema miseria. Smette i panni del cavaliere, e torna ad essere il mendicante che in fondo è: un uomo, cioè, che mendica senza mai raggiungere un grande ideale per cui vivere e per cui, soprattutto, morire.
Il sorriso di profonda simpatia che costantemente accompagna lo spettatore nel seguire le imprese di Brancaleone e della sua armata ha due origini: una riguarda il personaggio, laltra la sua lingua. La prima è cioè legata, come detto, alla sua continua, goffa e impossibile ricerca di un ideale cui votarsi interamente. Vorrebbe combattere come nessuno ha mai combattuto, vorrebbe amare come nessuno ha mai amato. Nel primo caso lintento fallisce per la propria mancanza di mezzi; nel secondo per lindegnità altrui.
Una sorte cui tutti, in vario modo, ci sentiamo simpateticamente accomunati. E comunque Brancaleone lo si apprezza perché è un eroe; costantemente sconfitto, ma pur sempre eroe. Quando deve combattere, non si tira mai indietro. Quando ama, ama con tutto sé stesso, fino al sacrifico.
L’altra caratteristica di Brancaleone che ammalia lo spettatore è la lingua, sua e di tutti i personaggi che lo circondano. Una parlata di sapore medioevale – con inserti latini e tratti fonetico-morfologici vagamente assimilabili a quelli degli antichi volgari centro-italiani – che ha tanto scarto dalla lingua di tutti i giorni, quanto la vita ne ha dagli ideali che Brancaleone agogna. E in quello scarto è tutto il fascino. Anche in questo caso l’esito prevalente è il divertimento, sebbene i discorsi raramente siano comici in senso stretto.
Insomma: il genio di Scarpelli, anzi, di Age e Scarpelli, ha con Brancaleone da Norcia raggiunto una delle massime espressioni – e certamente unica quanto a originalità – che la scrittura da cinema apparentemente leggero abbia mai dato. Un film che fa ridere senza mai essere comico; che fa piangere senza mai essere tragico. Un personaggio in cui tutti – sfido chiunque a negarlo – si identificano. Una lingua che quasi tutti, alla fine del film, cercano di imitare o riprodurre.
Complice della fascinazione è certamente la magistrale performance di Vittorio Gassman. Ma troppo spesso l’apprezzamento si concentra sull’attore che incarna il personaggio. Per questa volta facciamo dire a Scarpelli parole simili a quelle di un grande ironico come lui: se Brancaleone v’è piaciuto, vogliatene bene a chi l’ha recitato, e anche un pochino a chi l’ha scritto.
(Rossano Salini)
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