Avremmo voluto dire che La regola del silenzio è un film inevitabile. Di quelli che se non sei andato a vederlo non navighi nell’universo intellettuale di chi di cinema se ne intende. Purtroppo, invece, Robert Redford firma la regia di una storia mediocre sotto molti – troppi – punti di vista. Unica nota positiva – per cui valga la pena sedersi davanti al grande schermo e dire, tra qualche anno, io c’ero! – è Shia Labeouf. Giovane e scattante, Labeouf è Ben Shepard, un giornalista dell’Albany Sunday Times. Occhiali da pseudo radical chic, borsa a tracolla e taccuino, a Shepard viene affidato l’incarico di indagare e scrivere un pezzo sul recente fermento sorto attorno all’arresto di Sharon Solarz (Susan Sarandom).
La donna, con trent’anni di ritardo, viene catturata dall’FBI per l’uccisione di una guardia giurata durante una rapina organizzata dal cosiddetto Weather Underground nel lontano 1969. Alcuni simpatizzanti del movimento pacifista, in lotta armata contro il Sistema che finanziava e appoggiava la guerra in Vietnam, erano stati presi. Altri, molto più semplicemente scomparsi. Fuggiti dalla propria vita sotto falsa identità. Come Sharon Solarz, Mimi Lurie (Julie Christie), Dolan (Nick Nolte). E l’avvocato Jim Grant. Da lui partono le indagini di Shepard sul Weather Underground. Perché Grant, che ora è avvocato e padre single, scappa da Albany giusto un secondo prima che venga a galla la verità su di lui. Inizia, così, la lunga fuga di Grant verso un dove abbastanza ignoto per noi spettatori.
Non tanto nella motivazione, ma perché, nonostante l’intelligenza acuta di Shepard colga al volo tutti gli indizi fino a condurci alla soluzione dell’enigma, restiamo abbastanza estranei all’intera faccenda. Questo è il punto. Restiamo estranei. La storia parte a rallentatore e, per quanto la trama sia interessante e di quelle potenzialmente adrenaliniche, le vicende si susseguono con un lassismo sorretto più dai dialoghi che da vera e propria azione. Certo, uno di questi dialoghi è meravigliosamente sorprendente – quello in carcere tra la Solarz e Shepard -, ma per il resto la narrazione è troppo verbosa e poco agita per destare un vero interesse.
Il racconto, cioè – non la storia in sé -, manca di ritmo, di concitazione, di suspense. Oltre al fatto che il messaggio del film pare un po’ retorico. Forse perché non sorretto da una struttura anche psicologica dei personaggi profonda e approfondita. Tutto pare superficiale, veloce nel porsi davanti allo schermo, quasi inafferrabile. Il che banalizza l’intento finale. La Solarz decide, trent’anni dopo i fatti, di andare a costituirsi. Grant scappa, ma non per sottrarsi alla giustizia. Bensì affinché giustizia sia fatta e la verità su di lui venga a galla. Non di certo tramite l’FBI, cieco e ostinato nel perseguire la sua versione. Ma grazie a Shepard. Che con ostinazione e senso della cronaca raggiunge il punto finale che scagiona Grant.
Una sola simpatizzante resta, almeno per un po’, ferma sui suoi principi di lotta – anacronistica – al sistema. È Mimi. Dura e spietata. Per niente addolcita dal tempo passato, ma sempre più convinta che la lotta al Sistema sia non solo possibile, ma anche un dovere. La Solarz e Grant hanno una forte posta in gioco per cui lottare e fare un passo indietro, entrambi protesi alla verità. I loro figli. Che sono, poi, simbolo del futuro, anzi, metaforicamente del futuro del Paese. Nessuno dei due vuole che i propri figli si debbano vergognare di quello che loro due, ancora non genitori, hanno fatto in passato.
Non si tratta di rinnegare le proprie convinzioni. Solo di purificare le imprese che si macchiarono del sangue di un omicidio. Un tantino retorico, il tutto. O forse è solo una brutta impressione dettata dal fatto che il messaggio è bello e interessante, ma avrebbe potuto essere raccontato con un linguaggio molto più convincente.
Quel che resta sullo schermo è solo la malinconia per tempi andati e che mai più torneranno. Non stiamo parlando della storia, adesso. Ma degli anni che inesorabilmente segnano il fisico di Redford e della Christie, lasciando negli occhi di noi spettatori un velo di tenero rimpianto per gli attori prestanti che furono. Mentre qui, affaticati dall’età, si macchiano di una leggera nota ridicola. Forse è per questo che manca l’azione. Perché non ce la fanno più a correre.