Il trash in tivù non è più nemmeno divertente. Vabbé, noi saremo anche di quelli che le vesti se le strappavano già tanti anni fa, ai tempi del primo Grande fratello, ma poi ci siamo evoluti, abbiamo capito che rifletteva qualcosa di ciò che stava cambiando nella nostra società (il narcisismo e la voglia di apparire, almeno) e siamo perfino arrivati ad accettare che il pubblico giovane, per gioco, ci si identificasse. Ma oggi che accanto al reality arrancante di Canale 5 anche Lisola dei famosi mostra tutte le sue crepe, la verità è che si tratta di un genere profondamente inattuale. lidea stessa del trash televisivo che oggi suona fuori tempo massimo, e non solo per via della crisi.
Le parole e le situazioni eccessive, in tv, si sono dette e viste tutte, labitudine trionfa. I concorrenti sono maschere di concorrenti passati, tipologie di tipologie già analizzate, vite in fondo già vissute guardandole in tv. Per questo LIsola non può che ricorrere alle star del passato, ai naufraghi già naufragati, già piangenti, già urlanti, già litiganti. E forse è giusto che al posto della sacerdotessa Simona a condurre ci sia il mite Nicola Savino in tandem con la virile (in senso conduttivo) signora Luxuria. Tramonto dellimpero del reality insieme al debito di Endemol (inventrice del GF) che affatica Mediaset, mentre avrebbe dovuto rappresentare, quellacquisto, lapoteosi del format-pensiero.
Eppure cè chi dice che è la tv lunico terreno rimasto per la creatività, che il cinema è in crisi, senza idee, e nel mondo anglosassone ormai sorpassato dal piccolo schermo. Lo scorso weekend ci è capitato di verificarlo di persona, immergendoci insolitamente (uno per sera) in tre generi cinematografici molto diversi. Per descrivervi il primo, Underworld, il risveglio, al solito ricorro ad alcuni passaggi via twitter:
-Venerdì sera: così stanco da rifugiarmi in film rigorosamente fantascienza/action/horror. Livello mentale richiesto anni 12. Senza vergogna.
-Underworld il risveglio in 3D. Primi 10′ tolgono il respiro… Ma niente secchio di popcorn, giuro. E non richiedete opinioni, please.
-I 10′ senza respiro sono diventati 90′ di napalm audiovisivo tecnovampirico. La bella Kate Beckinsale non vale tanto.
-Trama-pretesto per una scrittura filmica da videogioco. E il 3D è davvero poca cosa.
Ecco un genere di film cui indulgi per pura terapia antistress e che alla fine necessità un discreto tempo di decompressione, tanto immagini e suoni ti percuotono, specie in una sala tecnologicamente aggiornata. Così il giorno dopo opti per qualcosa di più strutturato e narrativo, l’ipercartellonato The Iron Lady, biografia dell’appunto lady di ferro ex premier inglese Margaret Thatcher. Il tweet:
–Visto Iron Lady, l’interpretazione forse più matura di Meryl Streep, già in nomination agli Oscar. Film solido, encomiastico ma ben scritto.
Confermo tutto, due ore di conoscenza, emozione e contemplazione di una grande attrice all’opera (truccatrice anch’essa da Oscar). Ma quando un follower mi racconta che la regista nonché mia quasi coetanea Phyllida Lloyd, al suo secondo film, è la stessa di Mamma mia! resto basito. Ecco cosa vuol dire, nel mondo anglosassone, costruirsi un solido mestiere prima in tv e poi accedere a un alternarsi di genere assolutamente plausibile.
Ma come ho detto, è stato un weekend insolito, del genere non-ci-facciamo-mancare-niente, ed eccomi così allo svago domenicale puro di Mission: Impossible – Protocollo fantasma, quarto capitolo della saga figlia di una serie tv che qui in Italia quasi nessuno ha visto. I cinefili vi diranno che è così così, prevedibile, ripetitivo, ma non date retta: le due ore e più di cavalcata pseudo spionistica vi ripagano largamente del biglietto. Acqua fresca di buona qualità col super energetico Tom Cruise (ancora stupefacente, visto che a luglio toccherà quota 50) di cui dimenticherete in fretta la contorta trama come è accaduto per i tre capitoli precedenti (niente a che fare col livello trascendentale, virtuosistico de La talpa, ottimo film da Le Carré che a luci di sala riaccese genera un dialogo spontaneo con vicini di posto mai conosciuti prima alla ricerca di una qualche plausibile spiegazione). Dunque il cinema è vivo o morto? Se parlate di cinema d’arte, genere Fellini, Antonioni o l’appena travolto da una maledetta moto Theo Angelopoulos, è vero che un prodotto tv anche di ultima generazione firmato HBO lo supera in innovazione e spesso casting (persino il vecchio Dustin Hoffman si è piegato alla fiction con l’appena nato Luck). Ma l’effetto sala, buio, emozione condivisa (insieme alla puzza di popcorn, ahimè), resta altra cosa da una salotto di casa.
E proprio per un salotto – ma democratico, intelligente, autoreferenziale e naturalmente ribellista e “de sinistra” – ha scambiato martedì scorso la sala del Teatro Franco Parenti il fior fiore della intellighenzia milanese, in testa Giorello, De Monticelli, Scurati, Mancuso, ecc. Occasione la prima dell’equivocato (quanto a blasfemia) e sovrastimato (quanto a irrinunciabilità artistica) spettacolo di Romeo Castellucci col faccione di Gesù dominante. Non è nostra intenzione aggiungere una sola parola alle troppe (anche personalmente) già scritte, ma va riferita la traumatizzante esperienza occorsaci quella sera. Dopo un’oretta discretamente traumatizzante, e mentre ci accostavamo pensierosi e doloranti all’uscita, è arrivato, improvviso e indesiderato, il dibattito. Sì, quell’animale da anni ‘70 fra l’inquisitorio e il farneticante che credevamo di aver archiviato per sempre. Va capita la direttrice del teatro André Ruth Shammah, che dopo giorni difficili aveva bisogno di conforto e conferme alla sua scelta; ma una tale massa di ovvietà ribelliste di vecchio conio, naturalmente con l’“intolleranza dei cattolici” grande protagonista, ci ha veramente disturbato. Se qualcuno ha ucciso, quella sera, il controverso lavoro di Castelluci, stava apparentemente tutto dalla sua parte. Aveva davvero ragione chi sosteneva, qualche anno fa, che “no, il dibattito no…”.
Ed è la stessa ragione per cui sconsigliamo vivamente Mamma mia che domenica su La7, nuovo talk show dedicato alle mamme in attesa condotto da una panciuta e sulla carta scapigliata Camila Raznovitch. Il programma avrà avuto anche la migliore delle intenzioni, in tempi sterili come i nostri, ma la chiacchiera fra giovani padri e madri sui sonni mancati da infante con esperto “trendy” di supporto era insopportabile. Si auspica miglioramento.