Perché la giuria del Festival di Cannes 2016 ha premiato con la Palma d’oro I, Daniel Blake, un film vecchio, tradizionale, insipido e superato, non espressione della contemporaneità, come hanno scritto molti critici, soprattutto italiani? Possibile che il presidente della giuria, l’australiano George Miller, regista e autore della saga di “Mad Max”, ambientata in un distopico futuro prossimo, l’attrice e regista Valeria Golino, il regista francese Arnaud Desplechin, l’attrice statunitense Kirsten Dunst, l’attore danese Mads Mikkelsen, il regista ungherese László Nemes, vincitore lo scorso anno del Gran Prix per lo straordinario Il figlio di Saul, l’attrice e cantante francese Vanessa Paradis, l’iraniana Katayoon Shahabi, una delle più innovative produttrici internazionali, e Donald Sutherland, capiscano meno di cinema dei più illustri critici dei maggiori quotidiani italiani o dei centinaia di recensori di tanti blog per i quali solo Juste la fin du monde di Xavier Dolan o The neon demon di Nicolas Winding Refn o American Honey di Andrea Arnold meritavano di vincere?
La risposta è ovvia. Una giuria di professionisti del cinema e, quindi, di ottimi spettatori immersi nella contemporaneità ha premiato il film che più li ha emozionati e che meglio rappresenta, grazie al cinema, il mondo che esiste anche al di fuori del grande schermo. Il film di Loach e del suo sceneggiatore Paul Laverty racconta una storia semplice. Daniel Blake è un falegname di 59 anni al quale il medico vieta di lavorare perché ha dei problemi cardiaci. Per la prima volta è costretto a rivolgersi ai servizi sociali per ottenere un’indennità. Non la ottiene perché, all’inizio del film, rispondendo alle domande di un’intervistatrice di una società privata americana, cui lo Stato ha affidato tale compito, non raggiunge il punteggio previsto. Per sopravvivere e avere l’indennità di disoccupazione deve rivolgersi a un job center, compilando moduli su moduli on line.
L’incontro-scontro tra il protagonista, che non ha mai usato un computer, e le delizie di internet e dell’informatica, che una burocrazia medievale riesce a utilizzare per complicare invece che per semplificare, è una delle parti più coinvolgenti e tragicamente comiche del film, una versione aggiornata di Tempi moderni di Chaplin. Daniel Blake non è solo. Ha amici di pub, vicini di casa, che gestiscono improbabili commerci con la Cina, ma anche sconosciuti, persino burocrati gentili (e perciò puniti), esseri umani che lo aiutano e che lui aiuta per solidarietà.
Blake è un eroe. Non subisce mai in silenzio le vessazioni e le assurdità della burocrazia del benessere, ma la sfida continuamente con critiche colorite e battute che si spera vengano rese opportunamente nel doppiaggio, quando il film uscirà in Italia, distribuito da “Cinema” di Valerio De Paolis. Durante una delle tante giornate passate al centro del lavoro, Daniel interviene in difesa di Katie, una ragazza madre con due figli, Daisy e Dylan, che è arrivata in ritardo a un appuntamento e alla quale un’inflessibile impiegata non vuole fornire un certificato per consentire ai figli di andare a scuola il giorno dopo. Daniel propone a tutti i presenti in attesa di far passare avanti la ragazza, sostenendo che di certo questo non può danneggiare nessuno.
Questo atto di ribellione alle regole produce l’intervento dei sorveglianti che con impersonale efficienza accompagnano fuori sia lui che Katie. È l’inizio delle avventure di Katie, con Daisy e Dylan, e di Daniel Blake nella società del benessere, società dalle regole perfette per dei numeri, ma non per degli esseri umani. Quando alla fine del film verrà consentito a Blake di fare appello contro il rifiuto di riconoscergli la malattia, questo sarà appunto il senso del suo ultimo discorso: “Io sono Daniel Blake, un essere umano”.
Le ragioni del perché i giurati di Cannes hanno premiato I, Daniel Blake, si possono sintetizzare in due parole: distopia ed empatia. Fin dall’inizio, mentre scorrono i titoli di testa e si sentono solo le domande dell’intervistatrice della società americana e le risposte di Daniel, alternate a commenti e battute, si avverte un senso di disagio. La distopia che viene raccontata nel film di Loach non è quella di Brazil, ma è il “welfare state” di una delle più progredite società contemporanee, che lo spettatore ben conosce e riconosce perché ci vive anche lui: è il nostro presente. Da quel momento lo spettatore accompagna il protagonista in un viaggio nella società del benessere, il top della civiltà occidentale, dove però conta più il rispetto delle regole che quello degli esseri umani, dove le regole sono i fini e gli esseri umani i mezzi, dove i sorveglianti, che ti chiamano signore, non hanno nulla da invidiare alla psicopolizia del ministero dell’amore di 1984.
La struttura della storia, la costruzione dei personaggi, il realismo delle immagini, il montaggio serrato dei tanti episodi, il rigore e la semplicità con cui riesce a spettacolarizzare la complessità della burocrazia informatica, creano un’emozione, un’identificazione, che ti impedisce di staccare gli occhi dallo schermo. Quando Katie, in un centro di distribuzione gratuita di cibo, si sente male perché, per nutrire solo i figli, è digiuna da una settimana e ingurgita il contenuto di una scatoletta o quando, alla fine del film, viene letto l’appello di Daniel Blake, nel quale rivendica la sua umanità, è impossibile non avere un groppo alla gola. Ma per fortuna i giurati di Cannes fanno i film e vivono nella realtà contemporanea di cui l’opera di Loach è una spettacolare e viva testimonianza molto più significativa di tanti presunti capolavori in concorso e, a differenza dei critici e recensori che vivono solo nei film, non hanno potuto fare a meno di pensare quello che penserà la maggioranza degli spettatori: “I am Daniel Blake”.