Germania, 1958. La guerra è ormai alle spalle, e il boom economico abbraccia una popolazione pronta a tutto pur di dimenticare quanto accaduto. Auschwitz è un nome come un altro, o nel migliore dei casi uno scheletro da tenere ben chiuso nell’armadio, e molti membri delle SS si mescolano, impuniti, al resto della gente.
Queste le premesse reali de Il labirinto del silenzio, prima incursione nel lungometraggio del tedesco (ma nato a Milano) Giulio Ricciarelli. In una Germania filtrata attraverso colori pastello, il giovane pubblico ministero Johann Radmann (Alexander Fehling) cerca di rompere il muro del silenzio creatosi attorno ai suoi concittadini, nel tentativo apparentemente disperato – sono passati più di dieci anni, d’altronde – di consegnare i criminali nazisti alla giustizia. Aiutato da un buon cast di comprimari, il protagonista diventerà via via sempre più ossessionato dalla propria missione, fino ad arrivare a sognare e voler catturare “l’angelo della morte”, Joseph Mengele.
Il labirinto del silenzio si inserisce nel filone dei film sull’Olocausto, ma stravolge coraggiosamente la struttura tipica dei film del genere. Alla violenza cruda e diretta, all’orrore in primo piano e ai “pugni nello stomaco” Ricciarelli preferisce una trattazione un po’ più distaccata della vicenda, obliqua, ma non per questo meno intensa. La violenza, qui, non è presente se non nelle parole, evocata come lo spettro di un passato non del tutto superato.
Se è vero che la paura è più forte laddove contrasta con la gioia, allora gli anni ’50 sono l’incubatrice perfetta per far germogliare gli strascichi di orrore che il nazismo si è portato dietro. Dietro il volto roseo della Germania del dopoguerra si cela lo scheletro dell’ipocrisia e del silenzio, un labirinto in cui ogni figlio può ragionevolmente dubitare dell’innocenza del padre. E il protagonista, seppur presentato con il classico schema “scalata-caduta-risalita” tipico dell’eroe, dà nella crisi delle proprie convinzioni il meglio di sé, illuminandoci allo stesso tempo su una fase della storia europea spesso trascurata dai riflettori.
Ambizioso nelle intenzioni ma intimistico nella messa in scena, Il labirinto del silenzio fa della sua semplicità il proprio punto di forza. È un film che vive di parole e di testimonianze, di sguardi più che di effetti speciali. Il suo pregio più grande è quello di aver osservato la realtà dell’Olocausto da una posizione insolita e lontana nel tempo; questo, se da una parte serve ad adottare una prospettiva vicina a quella dello spettatore odierno, dall’altra permette un’altrimenti impossibile libertà di toni.
A volte la volontà di dipingere il protagonista come un eroe finisce per imbrigliare la trama, rendere prevedibili sviluppi futuri che, in una pellicola meno ancorata al dogma della “storia vera”, si sarebbero potuti sviluppare in modi diversi. Nel complesso, però, ci si trova di fronte a una pellicola ben più che discreta, capace se non altro di farsi notare all’interno del suo genere.