Dopo l’edizione So White dello scorso anno (per sottolineare l’assenza di candidati di colore), quella andata in scena la scorsa notte potrebbe essere definita un edizione degli Oscar So Political, in cui molti dei premi assegnati sembrano avere l’esigenza del messaggio verso Trump, vero convitato di pietra della cerimonia tra battute, riferimenti, proteste. Dimostra la piega politica del premio il miglior film, Moonlight, dramma di Barry Jenkins sulla scoperta dell’identità razziale e sessuale di un ragazzo di colore gay che dopo il Golden Globe e una stagione di premi di tutto rispetto vince anche per l’attore non protagonista Mahershala Ali e per la sceneggiatura adattata, come fosse una risposta indiretta alle polemiche dello scorso anno sollevate da Spike Lee, ma anche come affermazione del cinema impegnato verso la magia apparentemente “frivola” di Hollywood. Il grande favorito La La Land, infatti, musical tra classicità e modernismo di Damien Chazelle, si accontenta – si fa per dire – di 6 statuette, tra cui quella per la miglior regia e la migliore protagonista (Emma Stone), per la fotografia, la scenografia e ovviamente per il reparto musicale, colonna sonora e canzone (“City of Stars”).
Tra gli attori protagonisti vince il favorito Casey Affleck per Manchester by the Sea, dramma funerario di Kenneth Lonergan (vincitore anche per la miglior sceneggiatura), mentre la migliore attrice non protagonista è Viola Davis in Barriere, il film di Denzel Washington. Poche sorprese nell’edizione: la più clamorosa vena di giallo l’intera cerimonia – a voler essere maligni – e riguarda proprio il premio per il miglior film. Warren Beatty – assieme a Faye Dunaway sul palco per premiare e celebrare i 50 anni di Gangster Story – apre la busta del premio principale e legge La la land, ma è un errore, le buste sono sbagliate, ha vinto il film di Jenkins e i responsabili della serata devono rimediare.
Retro-pensieri a parte, era molto atteso per questioni politiche anche il premio al miglior film straniero: lo ha vinto Il cliente, film dell’iraniano Asghar Farhadi, che era al centro delle polemiche per il blocco degli ingressi da parte del Muslim Ban voluto da Trump, legge che ha impedito – dopo il rifiuto di Farhadi di accettare un ingresso speciale – anche al direttore della fotografia di presenziare alla serata. E Farhadi, dall’Iran, ha ribadito la disumanità della legge.
Fuocoammare, il documentario di Gianfranco Rosi su Lampedusa, è stato sconfitto nel premio di categoria contro OJ: Made in America, un monumentale lavoro di ricostruzione storica, sociale e politica che è anche la prima serie tv – passata al cinema per qualche giorno e dunque eleggibile – a vincere un premio Oscar; ma l’Italia si consola con il premio per trucco e acconciature vinto da Alessandro Bertolazzi, Giorgio Gregrorini e Christopher Nelson per Suicide Squad. Tra gli altri film a vincere almeno un premio, 2 ne vince La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson (Montaggio e Sonoro), Zootopia vince il premio per il miglior film animato, Arrival di Denis Villeneuve vince per il miglior montaggio sonoro, i migliori costumi vanno ad Animali fantastici e dove trovarli e Il libro della giungla è premiato per i migliori effetti speciali.
Un’edizione quella 2017 che sembra quindi – più velatamente di quando ci si aspettasse – di protesta, “di lotta” rispetto alle azioni anti-Hollywood e anti-media del governo Trump. Ma una protesta chiusa dentro il mondo dorato del cinema, dentro lo spettacolone del sogno e dello sfarzo scenografico. Un pulpito forse non credibile che cerca di riscattarsi con i film impegnati. Se questa protesta avrà un senso, lo capiremo solo il prossimo anno. Quando il carrozzone degli Oscar ripartirà.