Sunita è una donna srilankese di mezza età. Da molti anni in Italia, lavora malvolentieri come badante di un’anziana signora che accudisce quotidianamente, giorno e notte. Il poco tempo che le rimane lo dedica al figlio adolescente che prova, nel mezzo di un’età difficile, a crescere con pochi soldi e con poco affetto, trascinato in un circolo di solitudine che fatica a esprimere. Opera prima di Suranga Katugampala, giovane regista srilankese, Per un figlio appare subito come un progetto coraggioso, costruito attorno a storie di integrazione e immigrazione, e raccontato con un taglio documentaristico. Lo vedremo in Italia in pochi cinema e in poche date, con una distribuzione a dir poco limitata che renderà la sua visione un evento destinato a pochi.
Il pubblico elettivo è quello del cinema impegnato, pronto ad ascoltare una storia fatta di lunghi silenzi e di immagini desolanti. La storia “comune” di una famiglia di migranti dallo Sri Lanka, paese d’origine del regista che si aspetta di portare al cinema, oltre agli italiani, la comunità srilankese di oltre 100.000 persone nel nostro Paese. L’azione è semplice, quotidiana, ordinaria. Il punto di vista è intimo, con la telecamera che invade le espressioni disarmate di una madre e di un figlio, che combattono silenziosamente con le proprie paure.
Katugampala, con discrezione e rispetto, segue i giorni trascinati dei due protagonisti, che vivono le piccole grandi difficoltà della loro esistenza. Sunita, in Italia per necessità, fatica a integrarsi. Ha un lavoro che la aiuta a sopravvivere, in un paese che non vuole accettare, poiché molto distante dalla propria cultura d’origine. Ha un figlio che la aiuta a sperare, ma che non ha tempo, né capacità di accudire. La sua giornata si ripete in un urlo silenzioso che esprime tristezza. Non ha un compagno, ha una casa che non vive, ha un figlio che non vede. La sua vita non c’è. O c’è, semplicemente, per dare un futuro a suo figlio. Un figlio che incrocia in un tempo sospeso e breve, troppo breve per rivendicare il diritto di essere madre. Un figlio che, come ogni adolescente, rifiuta l’autorità, nel disperato bisogno di affetto e attenzione.
Il regista mostra, rivelando qualche immaturità nel racconto corale, una storia più comune di quanto possiamo immaginare. Una storia che ci aiuta a immaginare la fatica di vivere lontano da dove vorremmo essere. La storia di milioni di migranti che hanno perso la propria identità, senza trovarne una nuova. Sospesi in un paese ospitante che fatica a dare opportunità ai propri figli e che rinuncia a dare casa ai suoi ospiti. Ospiti che accetta, senza riconoscerne i sogni, i sentimenti e nemmeno i figli, italiani “con riserva”.
Per un figlio è un film difficile. Saturo di silenzio e di piccoli eventi quotidiani. C’è una storia che non dà spazio a quasi nulla che non sia quotidiano. Ci sono i visi malinconici, svuotati di speranza, dei protagonisti. C’è poco altro. Ma tanto basta per dare valore a una pellicola imperfetta che porta l’attenzione sulla vita delle famiglie straniere, povera d’azione e ricca di tensioni spesso inespresse. Un film che ci aiuta a considerare lo straniero come uomo, a dare importanza alle persone vere, oltre ai numeri o ai fatti di cronaca.
E se il risultato del nostro essere ospitali è quello che il film racconta, abbiamo la certezza che stiamo prendendo loro molto più di quanto stiamo dando.