La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson è un capolavoro. Un film perfetto. Com’è perfetto un pensiero che coglie l’essenza della realtà, esprimendo la verità delle cose. È quanto, del resto, ha affermato Gibson, in una delle prime conferenze stampa, con il cast al completo, inclusi produttore e sceneggiatore: Hacksaw Ridge non è un “film di guerra” (war movie), ma una “storia d’amore” (love story). La storia d’amore è rappresentata dalla vicenda di Desmond Doss, il caporale dell’esercito degli Stati Uniti d’America, impegnato come combat medic, distinguendosi soprattutto nella drammatica battaglia di Okinawa.
Okinawa è un’epopea dell’ultima fase della guerra, sul devastante fronte del Pacifico, che si è svolta attraverso una serie di campagne intermittenti: gli americani e i giapponesi si sono combattuti, senza esclusioni di colpi, per 82 giorni, dal 1 aprile al 22 giugno del 1945. Desmond Doss era su quel fronte, così vasto e difficile, fino alla fine, salvando 75 vite umane e testimoniando un puro amore al prossimo. Proprio questa purezza, al di là di ogni religione, credo e ideologia, è ciò che ha attratto Gibson e che egli stesso ha definito ultimate love, amore sommo.
Doss non è un supereroe della Seconda guerra mondiale. È un uomo comune, nato in Virginia nel 1919, all’indomani della fine della Grande Guerra, che segnò profondamente la vita del padre, ed è anche un uomo religioso, appartenente alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Un pacifista non ideologico che non tocca le armi, non mangia carne, e ha chiaro lo scopo della sua vita: “I need to serve”. “Ho bisogno di fare la naja”, potremmo liberamente tradurre. Un soldato, con un cuore pieno d’amore per gli altri, ma certamente non un obiettore modello ong e dintorni.
Un enorme Andrew Garfield dà corpo, anima e voce all’eccentrico Doss, al maverick della provincia americana, in fila con i suoi compagni d’armi, che non solo non lo capiscono, ma lo picchiano e lo disprezzano, perché questo ragazzo americano sta mostrando loro che la guerra non deve per forza trasformare gli uomini in animali. Questa è la spiritualità umana, candida e universale documentata magistralmente da un regista ormai all’apice della sua esperienza umana, capace di trasformare in oro e indimenticabile narrazione ogni goccia di sudore umano.
La battaglia di Hacksaw Ridge (presentato fuori concorso a Venezia) non è solo un grandissimo film, è prima di tutto un percorso di crescita spirituale e uno storytelling marchiato col sangue della verità, è la presa diretta della mistica dell’amore umano in azione. Soltanto Mel Gibson è in grado di creare capolavori così a contatto con la pelle e l’anima dell’uomo e il suo percorso di crescita, con un’acuta spirale di discese e risalite, testimonia come l’arte sia lo specchio della vita e spesso racconti la vita come seguendo canoni che vengono dall’alto, dettati da pura ispirazione.
Con Braveheart (1995), il regista americano inaugurò la nuova stagione tardo moderna legata a ciò che Joseph Campbell definì “The Hero’s Journey”, il viaggio dell’eroe. Seguirono The Passion of the Christ, nel 2004, col quale la spiritualità mistica postmoderna – si pensi alla presenza delle fonti legate alla mistica Anna Katharina Emmerick, materiale per alcune importanti scene del film – ritrovò il fulcro nell’esperienza della Passione di Cristo, descritta in tutta la sua storica crudezza. Aramaico e latino a riempire i dialoghi degli attori, una soluzione tanto geniale quanto faticosa. In cantiere il sequel dedicato alla Resurrezione del Signore.
Infine, Apocalypto, recitato in Maya Yucateco, “adrenalina pura”, come scrisse un noto critico americano, un’opera che, prima dell’uscita nelle sale, non si sarebbe neanche potuto immaginare. Ritorna il ciclo del viaggio dell’eroe, con al centro il personaggio chiave, Zampa di Giaguaro, in un contesto di demitizzazione delle civiltà precolombiane e precristiane. L’era postmoderna, mai demonizzata da Gibson, che non è un becero tradizionalista religioso, viene attraversata da bagliori di intelligenza ispirata e anche schierata. Un mix più unico che raro.
I dialoghi densi e serrati, la perfetta scelta dei personaggi e dei caratteri, la recitazione a dir poco somma non solo di Garfield, ma di un efficacissimo Vince Vaughn, che interpreta il sergentone di ferro, Howell, alla fine convertito dalla grandezza umana e spirituale di Doss, la coralità dell’espressione umana dei soldati, in attesa di calcare il suolo drammatico di Okinawa, la superba love story fra Doss e la sua amata Dorothy, interpretata da una Teresa Palmer in grande spolvero, la miniatura filmica, secca e luminosa, di Tom Doss, il padre di Desmond, reso carattere drammatico e centrale da un superbo Hugo Weaving, rendono questo film un punto di non ritorno nell’intera epopea del cinema postmoderno. Sei nomination all’Oscar, immancabile ovviamente la migliore regia e attore protagonista, Andrew Garfield.
Il cinema degli ultimi anni, soprattutto americano, è alla ricerca di nuovi miti e nuova spiritualità, oscilla, quasi smarrito, tra eroi dannati e action movie a sfondo sociale. In questo scenario, un film come La battaglia di Hacksaw Ridge recupera e perfino travalica la dimensione dell’opera di narrazione pedagogica, con una scelta di campo assoluta, decisa fino in fondo da una figura adamantina come Desmond Doss, il primo militare obiettore di coscienza a essere insignito con la Medal of Honor, la più alta onorificenza militare. In tutto sono tre gli obiettori di coscienza con pieno servizio militare ad aver ricevuto questa alta onorificenza.
Quando il significato di un film va ben oltre la bellezza e perfino il genio, come in questo caso, occorre indagare la grandezza di chi l’ha creato e, ancora una volta, chi si è tolto la polvere pesante della vita di dosso è stato Mel Gibson. Ogni casualità è da considerare bandita.