Siamo arrivati al capitolo conclusivo della saga cinematografica di Hunger Games, basata sui romanzi di Suzanne Collins e ambientata nel mondo distopico di Panem. Dopo la fine dei giochi crudeli ideati per tenere a bada il popolo e l’inizio della rivolta, i distretti in cui è divisa la società sono decisi a marciare verso la capitale, per distruggere il regime dittatoriale del presidente Snow (Donald Sutherland). La giovane Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence), sfruttata in passato per esaltare il pubblico del macabro spettacolo dei giochi, è diventata il simbolo della rivoluzione, la figura di riferimento della gente.
Ma di rado dalle ribellioni violente nasce la libertà. La lotta contro il potere rischia spesso di generare una nuova dittatura, diversa solo in apparenza dalla precedente. Katniss intuisce che i ribelli guidati dal Presidente Alma Coin (Julianne Moore) non sono migliori di coloro contro cui combattono e decide di lasciarli, per cercare da sola la sua vendetta e uccidere Snow. Ed è sola davvero, Katniss, perché le persone a cui tiene sono in pericolo (la sorella), manipolate (Peeta) o morte, mentre la resistenza vorrebbe trasformarla in una martire per unire le truppe. Anche Gale (Liam Hemsworth), che le è sempre stato vicino, diventa sempre più “politico” e difficile da decifrare.
Lasciate sullo sfondo le preoccupazioni romantiche tipiche dei prodotti YA, Hunger Games punta su temi forti, come il ruolo dell’immagine nella nostra società e la manipolazione. Il corpo è uno strumento potente, e Katniss non rinuncia a usare l’apparenza e il potere del simbolo per affermare i valori in cui crede. Con un originale ribaltamento dei ruoli, qui è la donna a dover salvare l’uomo (Peeta, fragile nella sua bontà, ora incapace di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è) e a scendere nell’arena per dimostrare la propria forza. Una forza che si identifica con l’autonomia di pensiero e il diritto di non essere usata da nessuno.
Come da tradizione hollywoodiana, ne Il canto della rivolta – parte II (diretto da Francis Lawrence) non si risparmiano esplosioni, fughe e insidie nei tunnel sotto la città, ma la violenza è in un certo senso funzionale al messaggio: non c’è salvezza, né libertà, se si risponde al Male con altrettanto Male.
Si apprezza lo stile asciutto, che stranamente si perde nel finale “trascinato”, diviso in tre parti quando in realtà la storia si poteva chiudere in modo più netto ed efficace. Un difetto che però non toglie i meriti di un quarto episodio costruito e girato con sapienza.
Dopo un paio di film sottotono, finalmente Katniss torna a dominare la scena e procede verso l’obiettivo senza perdersi in dubbi e incertezze. Nonostante la durezza del personaggio, la brava Jennifer Lawrence rende Katniss femminile e intensa, dimostrando come la purezza degli intenti e delle emozioni vinca su qualsiasi finzione.
Perché è questo che rende interessante Hunger Games, il conflitto tra la realtà e ciò che gli altri – il governo, i media, i leader – vogliono farci credere. Esiste ben poco di autentico nella società attuale, tutto è filtrato dai mezzi di comunicazione e dai social network, distorto, ribaltato, proprio come il mondo intorno a Katniss. L’ingiustizia, il dolore, la morte, che senso hanno? Vale ancora la pena di combattere per una realtà migliore?
Riprendendo un concetto che è già in Calvino (“Le città invisibili”) e in Tolkien, la storia di Hunger Games si conclude con una risposta a questa domanda. Sì, ne vale la pena, perché in mezzo all’inferno c’è ancora del buono, ed è questo che va difeso e salvato.