Il Paese che ha vinto il maggior numero di Oscar nella categoria miglior film straniero non in lingua inglese è l’Italia. Questo perché vive ancora di rendita sulle vittorie dei Fellini e dei De Sica, che si portavano a casa la statuetta un anno sì e un anno no. In questo secolo, invece, solo due film italiani sono stati candidati nella cinquina dei finalisti, La bestia nel cuore di Cristina Comencini e La grande bellezza di Sorrentino, che ha vinto nel 2014.
I magnifici sette film italiani in corsa per l’Oscar, che verrà assegnato a Los Angeles il 26 febbraio 2017, sono: Fuocoammare di Gianfranco Rosi; Gli ultimi saranno gli ultimi di Massimiliano Bruno; Indivisibili di Edoardo De Angelis; Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti; Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese; Pericle il nero di Stefano Mordini; Suburra di Stefano Sollima.
I sette film sono sicuramente rappresentativi del nostro cinema, anche se colpisce l’assenza di La pazza gioia di Paolo Virzì e la presenza di Indivisibili, appena presentato alle Giornate degli autori a Venezia e da pochi giorni in sala. Contro Virzì ha sicuramente pesato il fatto che sia La prima cosa bella, nel 2011, che Il capitale umano, nel 2015, scelti per rappresentare l’Italia, non sono mai arrivati in finale. Medusa, che distribuisce il film di De Angelis, prova invece a conquistare la candidatura con una mossa a sorpresa. La storia delle sorelle siamesi di Castel Volturno, che mantengono tutta la famiglia come cantanti e scoprono di poter essere separate con un’operazione, descrive un’Italia contemporanea drammatica e cialtrona che potrebbe sembrare abbastanza folkloristica e felliniana per gli accademici americani, ma potrebbe non reggere il confronto con concorrenti più maturi, come l’argentino Il cittadino illustre, in concorso alla Mostra di Venezia.
Perfetti sconosciuti, che vede una sera a cena un gruppo di amici mettere a disposizione di tutti i cellulari di ognuno, ha un soggetto, già venduto all’estero per un remake, con un ingranaggio comico fatto apposta per permettere a ottimi sceneggiatori di scrivere ottime scene per ottimi interpreti, ma niente di più. La commedia di Massimiliano Bruno, Gli ultimi saranno gli ultimi, è sicuramente l’opera di uno dei pochi registi italiani, assieme a Virzì, in grado di fare film che vogliono raccontare, in modo non banale né qualunquistico e ricorrendo comunque alla commedia, la vita drammatica di italiani qualsiasi. È il caso dell’operaia licenziata perché incinta interpretata dalla Cortellesi. Ma, anche se buono, non è questo purtroppo il miglior film di Bruno.
Sollima è l’unico regista italiano in grado di dirigere un film noir iperdinamico e denso di umori e violenza come Suburra, che non ha nulla da invidiare a un film americano. Saremmo contentissimi di essere smentiti se Sollima, come Leone, riuscisse a battere gli americani nel loro campo, ma non per un Oscar. In Pericle il nero, Riccardo Scamarcio, camorrista piuttosto spaesato in Belgio, fa letteralmente il culo ai nemici del suo boss. È un noir che sarebbe stato più credibile se avesse mantenuta l’ambientazione originaria, a Napoli, del romanzo di Ferrandino. Così snaturato, per ragioni coproduttive, è decoroso, ma difficilmente potrà entusiasmare i giurati dell’Academy.
Fuocoammare è un documentario che ha dalla sua parte l’autorevolezza di aver vinto l’Orso d’oro a Berlino, il suo carico di migranti e di cadaveri reali, il ritratto meraviglioso del medico di Lampedusa, che non si abitua dopo anni allo spettacolo dei morti in mare. È improbabile che un documentario vinca in questa categoria, ma Rosi ci ha abituato al fatto che c’è sempre una prima volta. Lo chiamavano Jeeg robot, fiaba metropolitana con un supereroe di borgata, un mix di generi il cui successo può stupire solo chi non lo ha visto, sembra possedere le caratteristiche per sorprendere i giurati americani. Un altro punto di forza del film è lo stesso regista Gabriele Mainetti. È riuscito a fare il film contro tutto e contro tutti, dimostrando anche con il botteghino, di avere ragione a voler realizzare un’opera così originale per il nostro cinema. Nel caso in cui il suo film fosse selezionato, dedicherebbe ogni energia per arrivare fino in fondo, come ha già fatto nel 2014, quando riuscì a portare il suo cortometraggio Tiger boy alla finale degli Oscar.
Se sarà Lo chiamavano Jeeg robot (o Fuocoammare o Indivisibili) a rappresentare l’Italia agli Oscar lo deciderà, a Roma presso la sede dell’Anica, il prossimo 26 settembre, una commissione di cui fanno parte il regista Paolo Sorrentino, lo scrittore Sandro Veronesi, i critici Enrico Magrelli e Piera De Tassis, i produttori Roberto Sessa e Tilde Corsi, i distributori Osvaldo De Santis e Francesco Melzi D’Eril e il direttore generale Cinema del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo Nicola Borrelli.