Quella al centro del nuovo film di Bent Hamer (1001 grammi) sembra una domanda a cui risponderebbe solo un sofista o un emulo di Lapalisse: quanto pesa un chilogrammo? Hamer – curioso e affascinante regista norvegese, autore di film preziosi come Kitchen Stories e Il mondo di Horton – dà alla scienza un significato intimo e prova a rispondere attraverso le vie dei rapporti umani e familiari.
La protagonista del film è Marie, impiegata presso l’ufficio norvegese dei pesi e delle misure che deve recarsi a Parigi per un convegno internazionale sull’esatta determinazione del peso. Ma assieme al suo campione di chilo, tenuto con cura sacrale, Marie dovrà fare i conti con l’imprecisione delle vite umane e la fragilità tanto dei pesi quanto delle relazioni. Scritto dallo stesso regista e in sala dopo due anni dalla sua produzione, 1001 grammi è uno di quei drammi lievi, quasi tendenti alla commedia, tipici dell’autore in cui azioni, luoghi e professioni curiosi e simbolici diventano un emblema delle questioni esistenziali che i personaggi si portano dietro.
In questo caso, la precisione e la maniacalità di un’addetta alla misurazione, responsabile dell’idea che un’intera nazione ha della misura del peso, che dà – assieme alla comunità gustosamente rappresentata nelle sequenze a Parigi – un valore quasi religioso al proprio lavoro, che si trova in conflitto con la confusione dell’essere un umano, del gestire le emozioni in modo imprevisto e spesso irrazionale: Hamer costruisce il personaggio attraverso piccole scene significative, come il passaggio in aeroporto quando nega alla sicurezza di ispezionare il suo chilo, interrotte da svolte drammatiche e adotta uno stile geometrico, freddo, fatto di inquadrature larghe o dall’alto per poi avvicinarsi ai personaggi e abbracciarli nelle scene più emotive.
Arrivando a un finale in cui la geometria delle immagini e il bisogno di emozioni della protagonista, tra il peso delle ceneri paterne e l’incontro di un nuovo amore, si uniscono in modo coerente: d’altronde cos’è un peso, un’unità di misura se non una convenzione tra la misurazione scientifica e la fallibilità umana?
Peccato che Hamer scelga un tono un po’ troppo compresso nella regia, che abbinato a un andamento sfilacciato del racconto blocca il potenziale emotivo della metafora scelta e sembra togliere al film il gusto della sorpresa, del bozzetto commosso e sorridente che Hamer ha saputo realizzare in altri film. Come se nel cercare aperture visive e di scrittura più ambiziose (ma forse meno peculiari) fosse incappato in staticità inusuali. È un peccato, certo: ma nella calma piatta dei cinema a Ferragosto non ci si dovrebbe lamentare troppo.