Basterebbe un titolo come C’eravamo tanto amati per scriverne il nome nella storia del cinema, non solo italiano. Ma Ettore Scola è stato uno dei cineasti dalla carriera più ricca e soddisfacente del panorama europeo: facendo i prosaici, in 50 anni di cinema ha vinto 8 David di Donatello, un premio alla regia a Cannes per Brutti, sporchi e cattivi e 4 nomination all’Oscar.
Scola se ne è andato ieri sera, a 84 anni, sconfitto dal suo cuore che si è fermato nel reparto di cardiochirurgia del Policlinico di Roma. Un uomo acuto, vispo dietro l’apparente solennità, che scandiva parole e frasi come se ognuna avesse (e l’aveva) un peso essenziale. Un cineasta tra i più amati e amabili che abbiamo avuto in Italia che ha lavorato nel mondo dello spettacolo in modo completo, totale, variegato, cercando di capire e interpretare il paese attraverso i rivoli del suo popolo. Dai disegni satirici e caricaturali del Marc’Aurelio appena maggiorenne al varietà teatrale, radiofonico (dove conoscerà i compagni di una vita: Ruggero Maccari e Alberto Sordi) e televisivo per poi approdare al cinema come sceneggiatore – tra i più grandi del cinema italiano, specie nella sua collaborazione con Antonio Pietrangeli – e infine nel ‘64 alla regia con Se permettete parliamo di donne.
L’affilatezza della sua penna e prima del suo pennino saranno una delle costanti della sua arte, capace di osservare la società nell’ottica di una commedia sempre sul filo del dramma oppure capace di vestirsi di grottesco per raccontare l’evoluzione e più spesso l’involuzione dei costumi, dei nuclei sociali, dei miti politici di un Paese. Commedia italiana certo, di cui è stato un alfiere, ma anche cantore di una malinconia insopprimibile che rivestiva di un’eleganza e di un’intelligenza impagabili: il memorabile film che si citava all’inizio, tra i più grandi mai realizzati nel nostro Paese, racconta il dopoguerra italiano meglio di un qualunque libro di storia e sociologia, l’evoluzione della cultura e della politica, il ritratto degli italiani e delle loro infinite contraddizioni.
Ma Scola, con quel passato da disegnatore e scrittore di testi satirici era, per natura, un osservatore e pur senza mai, o quasi, rivestire i panni del moralista punzecchiava errori e orrori di un Paese: i rancori di La famiglia, la mestizia dell’alta borghesia in La terrazza, l’ipocrisia benestante di Riusciranno i nostri eroi… E la storia, recente o meno, da cui Scola traeva spunti di riflessione per il presente: l’oppressione esistenziale del regime in Una giornata particolare, la decadenza di amore e nobiltà in Il mondo nuovo, la normalità di fronte all’Apocalisse del nazismo in Gente di Roma.
Ma a voler trovare un segno distintivo nel cinema di Scola, e limitarsi a uno è un’impresa niente male, è l’eleganza con cui ritraeva personaggi, descriveva situazioni e soprattutto l’eleganza con cui interpretava e viveva il linguaggio cinematografico: il modo in cui l’abiezione di Brutti sporchi e cattivi diventa alto cinema, ma anche l’amore per l’unione di musica e cinema che lo rendeva un ballerino della macchina da presa. I piani sequenza di Ballando ballando, il finale di Una giornata particolare, l’incontro con Fellini in C’eravamo tanto amati.
Nonostante i toni ironici se non sarcastici, una sorta di nobile distanza per nascondere le lacrime, il cinema di Scola è stato un cinema tanto consapevole quanto appassionato, un opus in cui si viveva in modo evidente l’anima e il cervello del suo autore, in cui le sue passioni e le sue riflessioni pulsavano senza sosta, prendendo forme diverse ma non staccandosi mai dalla realtà, dal dramma storico alla commedia irridente e sfociando in più di un’occasione nel documentario militante (su tutti, “Trevico-Torino Viaggio nel Fiat-Nam”).
Lo si è detto molte volte, che si chiude un’era per il nostro cinema. Ma forse stavolta è più vero. O forse è solo più triste.