Dopo il Leone d’oro per Sacro GRA, Gianfranco Rosi ha conquistato anche l’Orso d’oro a Berlino con il suo nuovo film Fuocoammare. È la seconda volta che a un italiano riesce questa doppietta (in precedenza riuscì ad Antonioni), ma la vittoria di Rosi ha un sapore tutto diverso e inusitato perché non solo il regista di origini eritree realizza documentari, ma perché i suoi film sono tra i più complessi e “diversi” che si possano vedere nel genere.
Questa volta Rosi è andato a Lampedusa su richiesta della sindaca Nicolini per raccontare l’isola e il suo rapporto con i migranti che quotidianamente arrivano: così Rosi decide di mettere in scena l’incontro tra due mondi separati, quello della natura e della popolazione locale e quello dei naufraghi, di chi in barche fatiscenti sfida la vita.
Quello che conta in Rosi è l’approccio, lo sguardo: praticamente da solo e senza troupe, Rosi è stato un anno sull’isola per capire i luoghi, i contesti e le vicende e poi, una volta entrato in contatto con quel mondo, anzi quei mondi, ha girato ed elaborato artisticamente quella realtà, attraverso l’occhio pigro di un ragazzino, Samuele (il cui fratello aveva già raccontato come attore Lampedusa qualche anno fa, in Terraferma di Emanuele Crialese).
È venuto fuori un film bellissimo e affascinante ed estremamente prezioso perché anziché mostrare le sofferenze dei migranti con sguardo caritatevole, anziché utilizzare la facile retorica dell’eroe comune scava nelle immagini reali per dar loro corpo ed eco antica, per far risuonare l’essenza stessa di luoghi e persone e oltre a un incontro di mondi realizza una fusione di forme artistiche: da una parte c’è il poema sinfonico, si direbbe arcadico, sulla natura e sulla sua concretezza, fatta di mare, sassi, macchia, animali e cibo, esseri umani e tradizioni; le tradizioni sfumano dall’altro lato nel canto epico dei poli in viaggio, nella morte probabile come unica possibilità di fuga dalla morte certa, in cui i volti e i corpi distrutti s’innalzano a simbolo dell’umanità senza perdere la loro attualità politica (in una delle scene chiave, i sopravvissuti a uno sbarco cantando e pregando sulle loro disavventure dall’Africa in Italia).
A fare da collante e da viatico filmico a un’integrazione auspicabile è la figura di un medico che da anni opera in ogni modo con e sui migranti, curandoli, visitandoli e praticandone le autopsie tra incubi e angosce: la sequenza in cui parla direttamente allo spettatore, l’unica in tutto il cinema di Rosi riconducibile al documentario convenzionale, è anche la testimonianza schietta e immediata dell’urgenza di un film come Fuocoammare (dal titolo di una canzone tradizionale che le donne dedicano agli uomini in mare per pescare).
Che in primis però, oltre le necessità della comunicazione politica, è soprattutto una potente opera cinematografica sui confronti e i rapporti tra elementi distanti che il cinema e l’arte rendono armoniosi: la natura e l’uomo, il passato e il presente, l’antico e il moderno, le azioni e le situazioni. E anche la macchina da presa e ciò che riprende, come reagiscono uomo e natura di fronte alla rappresentazione di loro stessi. Il nodo più spinoso che un film possa affrontare, che qui diventa anche mezzo per cercare di capire una tragedia che è una situazione politica che va compresa, non solamente affrontata.