Il 70° anniversario del Festival passerà forse alla storia come un’occasione persa e l’edizione 2017 sarà ricordata come la più debole degli anni recenti e su questo quasi tutti i commentatori e i critici sono concordi. Da una parte il festival ha scontato quest’anno la mancanza in assoluto di film, tanto che alcuni presentati non erano del tutto finiti, dall’altro si persegue la scelta di limitare la selezione ufficiale a un novero di registi più o meno affidabili e conosciuti, stavolta però scontando il fatto che tra questi gli unici appellabili come maestri erano Lynch, Haneke e Polanski.
Quest’ultimo ha chiuso il festival fuori concorso (segno evidente di un film non finito e non del tutto riuscito) con D’après une histoire vraie che sembra una prima bozza più che un film; Lynch era ovviamente fuori concorso con i primi due episodi della nuova stagione di “Twin Peaks” (per inciso, strepitosi); l’unico in gara era Haneke con Happy End che, pur tra le cose migliori viste al festival, è un film che riporta a galla i suoi temi e modi filmici. E tutto il festival è proseguito su questa linea: nel pezzo di apertura si parlava di come in mancanza di grandi nomi Cannes potesse aver puntato sui grandi film, ma questi grandi film semplicemente non c’erano. Le scoperte non erano tali, gli outsider rimarranno tali per ora e i più esperti hanno semplicemente rimasticato i loro lavori precedenti in modo più o meno evidente.
Questa 70a edizione ha mostrato due tendenze, una dei registi e una della direzione di Fremaux: la prima vede sempre più autori lavorare dentro i meccanismi del cinema di genere per rivitalizzare sguardi e personaggi: si pensi a Jupiter’s Moon di Kornel Mondruczò, film supereroico sullo sfondo del dramma dei migranti ai confini ungheresi; The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos, thriller/horror di vendetta familiare girato con stile grottesco e nichilista; il film d’apertura Les fantômes d’Ismaël di Arnaud Desplechin, in cui il melodramma e la spy story convivono nel film di memorie sentimentali; How to Talk to Girls at Parties di John Cameron Mitchell che mescola punk e fantascienza e Good Time dei fratelli Safdie che mescola Refn e Cassavetes. E poi il dramma politico di La cordillera, il thriller erotico di Ozon e gli alieni umanisti di Kiyoshi Kurosawa, oltre al fedelissimo Takashi Miike con l’avventura di samurai. E The Beguiled di Sofia Coppola, per chi scrive il miglior film della competizione (assieme a 120 battements par minute di Robin Campillo, vincitore del Gran Prix) e la definitiva maturazione di una regista (premiata proprio per il suo lavoro) che ultimamente sembrava cercare sé stessa: ci riesce con un cupissimo film bellico, politico, sensuale.
Se però gli autori si avvicinano al pubblico in un certo senso, il festival pare allontanarsi dagli autori: la sezione Un certain regard anziché tornare ad aprirsi a nuovi sguardi, nuovi autori, nuovi modi di cinema continua a chiudersi in un concorso di ripiego (fatti salvi 3 o 4 titoli), mandando allo sbando film che invece avrebbero bisogno di più spazio o peggio, relegando nomi e film importanti alla panchina, senza dare segni di scoperte. Così, ha gioco facile a vincere l’annata, come le ultime, la sezione parallela Quinzaine des réalisateurs, capace di scavare negli sguardi più innovativi e forti e di dare mostra ai registi che il concorso snobba: si sono visti lì i due film forse migliori, A ciambra di Jonas Carpignano (nettamente il migliore di una truppa di italiani interessanti ma incompiuti) e The Florida Project di Sean Baker.
Se a queste considerazioni aggiungiamo anche un’organizzazione più lenta e macchinosa del solito e un mercato che pare in difficoltà di fronte alle evoluzioni dell’industria – si veda la clamorosa assenza di major e blockbuster oltre alla ridicola polemica su Netflix – si può affermare che Cannes 70 ha fallito come celebrazione del mito di un festival. Ma potrebbe – o dovrebbe, speriamo – funzionare come punto di crisi e di ripartenza. Il cinema e gli spettatori ne hanno bisogno.