Definire brillante la carriera di M. Night Shyamalan sarebbe un falso storico. Dopo il successo de Il sesto senso, infatti, critica e pubblico hanno fatto a gara per screditare il regista di origini indiane, immediatamente declassato da figura autoriale a semplice mestierante. Ed ecco che, un po’ in sordina, arriva The Visit, un ritorno al genere “horror” (le virgolette sono più che mai indispensabili) dopo la parentesi di E venne il giorno e L’ultimo dominatore dell’aria.
Rebecca (Olivia DeJonge) e Tyler (Ed Oxenbould) sono due preadolescenti in visita dai nonni per la prima volta. Armati di telecamera, i due iniziano però a far luce sulle stranezze che circondano la coppia di anziani, in un crescendo più grottesco che orrorifico.
La febbre del mockumentary contagia anche Shyamalan, ma questa volta l’uso della macchina a mano è perfettamente contestualizzato, funzionale. Se Rebecca è un’aspirante Dawson Creek – non più riprese tremolanti con il cellulare, quindi, ma una regia consapevole e ragionata – il fratello Tyler è la spalla comica del film, e in più di un’occasione la tensione che si viene a creare viene smorzata da una sua battuta a bruciapelo. Il primo passo per un mockumentary di successo è essere credibile, coerente con sé stesso, e The Visit lo è fino in fondo; i bambini si comportano da bambini, con tutte le loro paure e ingenuità, e questo contribuisce a rafforzare la credibilità della vicenda.
Se c’è un regista che fatica a stare imbrigliato in un genere quello è Shyamalan. Né Il Sesto Senso, né tantomeno The Village possono essere considerati “horror”, benché condividano con il genere alcuni archetipi di facciata. L’etichetta di “fiaba nera” sarebbe più appropriata, e questo The Visit non fa eccezione. Prigionieri di una realtà ambiguamente ostile, lontani da tutto e da tutti, i due fratelli devono fare i conti con il proprio passato e le proprie fobie infantili prima che con il “mostro” di turno. Fiaba nera, film di formazione, commedia: la creatività di Shyamalan plasma il mockumentary in un momento in cui il mercato cinematografico pare esserne saturo, e gli infonde nuova linfa e vitalità.
Non ci si aspetti, quindi, l’ennesimo clone di The Blair Witch Project: il film mescola estetiche differenti in un miscuglio che sfugge a ogni tentativo di razionalizzazione; è sicuramente un film imperfetto, incapace di trovare la sua strada e quindi congelato in una perenne indecisione, eppure, se lo si guarda con occhio privo di pregiudizi, non si può non riconoscere a Shyamalan una forte autoironia e capacità di uscire dagli schemi.
Si aggiungano a questo due protagonisti irresistibili – cosa difficile in un film del genere, in cui di solito si ha a che fare con irritanti stereotipi -, due bambini comuni che si trovano a dover affrontare orrori ben più concreti e materiali di quanto inizialmente non sembri, ed ecco materializzarsi davanti agli occhi una pellicola atipica, “strana”, ma sicuramente capace di sorprendere.