Se siete stanchi del genere fantascientifico perché lo trovate monotono e ripetitivo, Arrival può senza dubbio farvi cambiare idea. E per gli amanti del genere? No problem, perché Denis Villeneuve mischia con maestria tutti quegli elementi tipici del fanta-action (alieni, tecnologia e astronavi), unendo a essi qualcosa di inaspettato e profondamente innovativo che vi stupirà. Garantito. Tutto comincia quando sulla Terra arrivano 12 strani “gusci” extraterrestri che se ne stanno sospesi a pochi metri dal suolo in varie parti del Pianeta. I “visitatori” cercano di dialogare, aprendo una volta al giorno il “portellone” per lasciare entrare gli umani.
A svolgere il difficile compito di capirli viene chiamata la dottoressa Louise Banks (Amy Adams), eccellenza in materia di linguaggio e comunicazione. Affiancata dal fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner), dovrà entrare nello strano monolite per cercare un dialogo con gli extraterrestri, per capire cosa vogliano e se abbiano buone intenzioni o meno. Louise e Ian, seppur con un’idea diversa di scienza, mettono insieme le proprie conoscenze e insegnano come si fa con dei bambini la maniera di destreggiarsi nella difficoltà linguistica.
Dall’iniziale e comprensibile timore dei due esperti, che finalmente sdogana la figura degli eroi “normali” che altro non sono che due studiosi amanti del loro mestiere, al primo incontro con gli strani esseri a otto tentacoli, fino alle prove di comprensione: tutto si gioca tra due dimensioni, tra la gravità terrestre e lo strano mondo dei visitatori. La situazione cambia quando appare evidente un’incomprensione, l’utilizzo ambiguo di una parola diventa motivo di spavento e di allerta. Inizia una corsa contro il tempo per scongiurare la distruzione cieca degli extraterrestri, senza permettere loro di spiegarsi in una lingua di cui essi non padroneggiano le sfumature.
Villeneuve fa qualcosa di straordinario. Al centro non mette le astronavi e le tecnologie futuristiche, ma l’uomo e la sua paura, con a disposizione pochissimo se non la sua intelligenza e gli strumenti che conosciamo oggi, banali come un tablet. Non sono più gli alieni in sé l’oggetto della ricerca, ma il linguaggio e la difficoltà di comprendere chi ha un modo di pensare diverso e che interpreta le parole con significati opposti. La comunicazione verbale e scritta che l’uomo ha perfezionato sempre di più nel tempo ora sembra non bastare per comprendere quella scrittura così strana, circolare, che non ha né tempo, né spazio.
Nell’accettare la scoperta sensazionale che è racchiusa nella conoscenza dell’altro e che è insidiata dalla scarsa capacità dell’uomo di avere fiducia nei suoi simili, si sprigionano tutta l’energia e la carica emotiva del film. Amy Adams, in grande forma, si ritrova a fluttuare tra ricordi e futuro, tra la Terra e un mondo quasi etereo. Il dialogo con gli “eptapodi” investe la sua vita, nell’intimo, la fa immedesimare nei loro meccanismi cognitivi, la immerge nel loro mondo.
Le scene si susseguono velocemente, dal pieno dell’azione a momenti di estrema e spaventosa calma in cui tutto si mescola e diventa incomprensibile. Ma solo fino a un certo punto, quando, improvvisamente, tutto appare chiaro anche agli spettatori che, con il fiato sospeso, riescono a capire anche il perché di un’apertura iniziale così singolare per un film di questo tipo. Proprio perché si capisce (anche se non è per nulla banale), è un peccato che Villeneuve non abbia avuto fiducia e abbia voluto dire esplicitamente, con l’ultima battuta del film, quello che sarebbe stato più elegante lasciare non detto, ma solo suggerito.
A parte questo piccolo neo, complimenti a un film che dice la sua sulla fantascienza, inserendo temi talmente attuali che mai si sarebbe potuto pensare andassero d’accordo con una narrazione di fantasia.