All’indomani dell’esperienza comica di Toti e Tata, Emilio Solfrizzi torna nella sua Bari su invito di Gianrico Carofiglio: “Per la televisione ho aiutato a tradurre in sceneggiatura due dei suoi romanzi. Alla fine abbiamo deciso di evitare l’uso delle inflessioni pugliesi, perché non era concebile che un avvocato e un magistrato parlassero come Cassano”. Nell’intervista rilasciata oggi al Fatto Quotidiano, Solfrizzi fa sapere di essere molto legato alla sua terra natia: “Bari era molto più vivibile rispetto al credere comune. La fama di città ‘non semplice’ è esagerata”. Fatto sta che chi viene da fuori, molto spesso, avverte il pericolo. “Lo stesso che ho avvertito io appena arrivato a Roma: è più un senso di estraneità rispetto a certe dinamiche”. Con Tata, a Bari, portava in sala oltre 2.500 persone: “Non siamo a Milano, dove certi numeri erano e sono normali, è nel Dna, una consuetudine di anni, una stratificazione di abitudini; e poi non siamo né siciliani né napoletani, non abbiamo né Pirandello né De Filippo”. Tradotto e ri-tradotto: “Forse noi baresi siamo portatori di un senso drammatico del non essere all’altezza. La sintesi è quel bibolarismo culturale del quale parlo spesso”.
ATTORE O PERSONAGGIO?
Oltre al teatro, anche tanto cinema. Ha girato un film con Belen… “Su questa storia amici e conoscenti mi hanno torturato. Tutti a domandarmi com’è nuda. In realtà era seminuda, e ho visto solo quello che hanno ammirato tutti nel film”. Capita spesso che il pubblico confonda l’attore col personaggio. “Per esempio, quando giravo Sei forte maestro, le mamme mi fermavano per chiedermi come risolvere i problemi dei figli con la scuola. Mi interrogavano su tutto, e quando provavo a spiegare la realtà, vedevo i loro sorrisi spegnersi sulle loro labbra”. Stessa cosa per Tutti pazzi per amore: “In quel caso c’era di mezzo un vivavio, giusto qualcosa sulle piante. Però poco”.
L’EPERIENZA UNIVERSITARIA
Che gran responsabilità, per un attore. “Questo è un tema. Infatti credo che la Nazione dovrebbe occuparsi, o almeno supervisionare, certe produzioni. Con la televisione si forma una cittadinanza”. Non un semplice intrattenitore, dunque, ma un vero e proprio plasmatore di coscienze. “Eppure mio padre non pensava che l’attore fosse un mestiere; al massimo un hobby”. Emilio studiò al Dams, con grande disappunto da parte dei genitori: “A loro non andava bene, per questo ho finto per anni di studiare altro. Alla fine mi laureai con 108. Rimpiango quei due punti, ma non meritavo 110: già lavoravo, e la mia tesi era rabberciata”. Un pensiero sul cinema di oggi? “Stupisce poco, a parte rare eccezioni, tipo Vanesa incontrada. La maggior parte degli attori ha permesso al cinismo di vincere, hanno ucciso il bambino, già sanno tutto, già prevedono tutto. Vanno a vedere un film e piazzano immediatamente dei ‘però’ pretestuosi”. Perché? “Il nostro lavoro ti corrompe; il successo ti corrompe. Ed è difficile reggere quando sei continuamente blandito. Non ci si può salvare. Puoi solo mantenerti, e a fatica”.