Per diversi fattori, Monolith è stato uno dei film più discussi dell’agosto cinematografico italiano, di solito parco di argomenti. Eppure il film di Ivan Silvestrini ha attirato l’attenzione dei media (molto meno di un pubblico che il cinema in agosto non sa neanche cosa sia) per via del suo look da cinema di genere Usa, ma soprattutto per l’operazione con Sergio Bonelli che ha visto nascere e crescere in contemporanea il film e una graphic novel e perché è il primo film di Vision, casa di distribuzione a marchio Sky.
Il film parte da un’idea semplice e forte: un’automobile iper-sicura e iper-intelligente che un giorno va in tilt e lascia una madre problematica fuori, nel deserto, mentre il figlioletto resta dentro, rischiando di morire di caldo. Come potrà la donna riuscire a forzare l’inespugnabile sicurezza di Lilith (è il nome dell’auto), versione consumistica dell’intelligenza artificiale di 2001: Odissea nello spazio (d’altronde, anche il titolo fa pensare al film di Kubrick)?
Scritto da Silvestrini con Elena Bucaccio, Stefano Sardo e Mauro Uzzeo su soggetto di Roberto Recchioni (nome di punta tra gli autori Bonelli), Monolith è un thriller fantascientifico giocato su una situazione tipica del B-Movie, ovvero il protagonista bloccato e immobilizzato in una situazione senza scampo, in cui si innestano tutta una serie di sfumature contemporanee riguardanti il rapporto tra tecnologia e umanità e, soprattutto, sul rapporto tra madre e figlio.
Il rapporto sempre più sovrapposto tra essere umano e umanità cibernetica, in un’epoca molto prossima alle auto che si guideranno da sole, si sposa nel film al bisogno di sicurezza che viviamo come un imperativo categorico, all’ansia per cui vorremmo controllare tutto che porta al paradosso per cui lasciamo che tutto sia controllato da qualcun altro: in questo contesto, il rapporto tra una madre che deve affrontare montagne e monoliti è una metafora perfetta per l’uso e serve a Silvestrini per aggiungere pathos alla suspense.
Ma se le premesse sono accattivanti e l’idea potenzialmente vincente, Monolith si brucia tutte le sue possibilità a colpa di una realizzazione approssimativa, che non riesce a costruire in modo solido le scene e le sequenze, poco abile nel dare tensione, incapace di ravvivare una costruzione drammatica sciatta e poco credibile in cui quei tentativi di pathos ed emotività finiscono per appesantire l’andamento.
È un peccato che Silvestrini, preso dalle ambizioni del progetto, finisca per confondere l’impianto tecnico del suo film con la regia vera e propria, il look visivo (non male la fotografia di Michael FitzMaurice) con la ben più difficile creazione di atmosfere, immaginari e discorso partendo dalle immagini del racconto. E alla fine della fiera, Monolith assomiglia alla sua automobile: un presunto gioiello che guarda al futuro ma che alla prima difficoltà resta bloccato e immobile.