Usciva quarant’anni fa nelle sale americane – nel marzo 1978 in Italia, Paese estero di suo maggiore successo – un film destinato a segnare un’epoca: La Febbre del Sabato Sera di John Badham, prodotto dal geniale Robert Stigwood, vero autore del film. Si deve infatti alla sua sagacia l’idea chiave di tutto il progetto: realizzare un film sulle tematiche emergenti dalle inchieste giornalistiche di quegli anni fine Settanta sulla condizione degli emigrati newyorchesi delle classi povere, però in un formato che fosse anche spettacolare e al passo con la rinata Hollywood del cinema spensierato targata Lucas e Spielberg. E sotto quest’ultimo profilo La Febbre del Sabato Sera è strettamente, e in maniera del tutto consapevole, figlio del suo tempo.
Così Badham gira una sorta di commedia musicale con risvolti sociali, non un musical moderno né tantomeno classico, visivamente incentrata sull’alternanza tra scene di ballo in discoteca (divenute celebri quelle con John Travolta in completo bianco e camicia nera scollata) e sequenze da noir contemporaneo metropolitano, girate soprattutto in notturna all’aperto, tra i vicoli di Brooklyn, nell’area degradata attorno al Sunset Park e sul ponte di Verrazzano, dove alla fine si consuma la preannunciata tragedia. Il film risulta allora un “amaro dramma realistico travestito da commedia musicale” come si chiede il Morandini? Probabilmente sì: le tematiche sottese affiorano chiare dal tessuto del racconto. Lo spettacolo e la musica si intersecano con esse e le contengono come una cornice, così come nella vita dei personaggi rappresentati – una gioventù, non solo di italoamericani, moderni “ribelli senza causa” simbolo del riflusso ideologico di quegli anni – lo svago-sballo in discoteca si interseca con la quotidianità fatta di squallore e privazioni. Ma la disco-music è forte e chiara, segna davvero un’epoca ben oltre i confini del film, e oggi di esso si rammenta poco altro all’infuori di quella.
La Febbre del Sabato Sera fu infatti un grande successo di pubblico, uno dei maggiori della sua epoca. Ingrediente chiave ne fu anche l’intuizione di affidare il ruolo principale all’emergente John Travolta, di poca esperienza ma morfologicamente perfetto per la parte. Figlio di uno sportivo dilettante, italoamericano, e di una cantante e ballerina di origini irlandesi, l’allora ventitreenne Travolta era al suo primo ruolo importante. Vestì i panni del Tony Manero del film con credibilità e misurata dose di istrionismo, nonché grande abilità tecnica nelle scene di ballo. Caratterizzazione molto azzeccata, quasi iconografica (il già ricordato completo bianco su camicia nera scollata), tanto da non riuscire a scrollarsela definitivamente di dosso fino ai tempi del tarantiniano Pulp Fiction (1994).
Nella sua parte più spettacolare e nella sua già rimarcata qualità di “specchio dei suoi tempi”, il film è stato anche una sorta di certificazione ufficiale di quel grande successo che la disco-music aveva da qualche anno già ottenuto nelle dancing hall di tutto il mondo. Ha segnato anche il salto di qualità e di dimensioni nella carriera del gruppo australiano dei Bee Gees, dei fratelli Gibb, tanto che alcune loro tracce presenti nelle musiche del film, spiccano Stayin’ Alive e Night Fever su tutte, sono diventate il simbolo stesso della disco-music anni Settanta.
Il film di Badham evidenzia inoltre un curioso parallelismo di temi e taglio visivo con il primo Rocky (John G. Avildsen, 1976), uscito solo un anno prima. Entrambi trattano di proletari metropolitani figli di immigrati desiderosi di riscossa; alternano parti spettacolari con luci e ribalte a sequenze più intimiste, esterni in notturna dove i protagonisti fanno i conti con la propria condizione, personale e sociale, confrontandosi e scontrandosi con i propri simili. Differiscono apertamente solo nel finale: ottimistico quello di Rocky, nichilista quello della Febbre. Nonostante il tutto stia prevalentemente sulla superficie, entrambi sono film di spessore, anche tecnico, e di forte impatto emotivo presso il pubblico. Entrambi divenuti caratteristici – rivisti oggi – di un’importante fase di transizione nella storia del cinema hollywoodiano, quella in bilico tra la rivisitazione dei generi classici con taglio moderno post nouvelle vague (Altman, De Palma ed altri), e il successivo regresso alle storie semplici e tradizionali girate in stile sfarzoso e spettacolare, di cui i già citati Spielberg e Lucas furono gli iniziatori.
Come si addice alle importanti testimonianze filmate del Tempo, anche La Febbre del Sabato Sera è stato di recente restaurato in 4K a partire dal negativo originale a cura della Cineteca di Bologna, sotto la supervisione del regista di allora John Badham. Viene ora ridistribuito in un centinaio di sale italiane, dando così al pubblico natalizio l’occasione per rivedere, nello splendore del grande schermo e con audio Dolby Surround, uno dei migliori prodotti d’intrattenimento culturale che Hollywood abbia mai sfornato. Buona visione e buon divertimento.