Pochi mesi dopo l’anteprima assoluta del suo film d’esordio Ossessione (Roma, 16 maggio 1943) e quindi il primissimo affacciarsi del neorealismo italiano, in un famoso articolo dal titolo “Cinema antropomorfico” apparso sul numero di settembre-ottobre della rivista “Cinema”, lo sceneggiatore e regista Luchino Visconti scrive: «Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico. […] L’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano».
Nei dieci anni che seguono, arrivano in sala i suoi La terra trema (1948), Bellissima (1951), l’episodio “Anna Magnani” del film collettivo Siamo donne (1953) e Senso (1954). Ma l’opera che prende in contropiede tutta la critica dell’epoca (specialmente quella più politicizzata, che aveva iniziato ad attendere con sempre crescenti interesse e aspettative le sue pellicole) è Le notti bianche – rilettura cinematografica del racconto omonimo di Fëdor Michajlovic Dostoevskij («Perdonate, ricordate e amate la vostra Nasten’ka», indimenticabile…) scritta a quattro mani da Visconti con Suso Cecchi D’Amico – la cui prima proiezione assoluta si tiene a Venezia il 6 settembre 1957 in occasione della 18ª edizione del Festival, al termine della quale l’allora cinquantenne autore ottiene il Leone d’argento. Ne sono protagonisti Mario e Natalia, il primo interpretato dal trentaduenne e già affermato Marcello Mastroianni – non nuovo a collaborazioni (teatrali) con Visconti, ma non ancora “esploso” (cinematograficamente) né nei panni di Tiberio (I soliti ignoti, 1958) né in quelli di Marcello Rubini (La dolce vita, 1960) – e la seconda dalla trentunenne Maria Schell, altra attrice di teatro, che si è guadagnata la fama internazionale su grande schermo con L’ultimo ponte (1954), per cui ha ottenuto una menzione speciale a Cannes, e Gervaise (1956), per il quale è stata premiata all’unanimità con la Coppa Volpi a Venezia.
Gianni Rondolino, nella sua imprescindibile biografia critica su Luchino Visconti apparsa nel 1981, ne scrive come di «un film minore – come minori sono Bellissima, Vaghe stelle dell’Orsa…, Lo straniero -, ma come quelli estremamente interessante per cogliere, nella loro manifestazione, taluni aspetti caratteristici di quel formalismo e di quell’estetismo, congiunti con una profonda inquietudine esistenziale, che sottendono l’intera opera viscontiana». Qualche pagina più avanti egli così sintetizza il suo pensiero: «Se c’era una affinità fra il suo mondo e quello dostoevskiano – come dieci anni dopo si potrà notare una analoga affinità con il mondo di Albert Camus dello Straniero -, peraltro dichiarata dallo stesso Visconti, essa andava cercata in un generico disagio esistenziale, in una sorta di male di vivere, certamente autentico ma non sufficientemente indagato e approfondito per farne materia di spettacolo». Queste le parole e il giudizio di un grandissimo studioso e conoscitore dell’intero corpus dello sceneggiatore e regista.
All’uscita del film, difendendosi dalla critica che vede in lui un’involuzione del percorso neorealista, Visconti medesimo ha modo di affermare che «[h]o realizzato Le notti bianche perché sono convinto della necessità di battere una strada ben diversa da quella che il cinema italiano sta oggi percorrendo. Mi è sembrato cioè che il neorealismo fosse diventato in questi ultimi tempi una formula trasformata in condanna. Con Le notti bianche ho voluto dimostrare che certi confini erano valicabili, senza per questo rinnegare niente. Il mio ultimo film è stato realizzato interamente in teatro di posa, in un quartiere ricostruito che arieggia Livorno, ma senza troppa fedeltà. Anche attraverso la scenografia ho voluto raggiungere non un’atmosfera di irrealtà, ma una realtà ricreata, mediata, rielaborata. Ho voluto, cioè, operare un netto distacco dalla realtà documentata, precisa, proponendomi una decisa rottura con il carattere abituale del cinema italiano di oggi. Io spero soprattutto di aver aperto con questo film una porta nuova, ai giovani registi italiani, che si stanno affermando».
Al di là di qualche libertà rispetto al testo di partenza, resta comunque ancora oggi il meraviglioso finale, prima che Natalia si allontani stretta all’inquilino del quale è innamorata (e che attendeva ormai da un anno, tutte le sere, nello stesso luogo, alla stessa ora) e che Mario resti solo in compagnia di un festoso cagnolino, lo stesso che all’inizio del film non voleva saperne della sua in fondo distratta attenzione di borghesuccio appena giunto in città… Mario [titubante]: «Chi è, Natalia?» / Natalia [con crescente agitazione, poi piangendo]: «È lui. È lui! […] Io… io… io… ho ingannato te e me. Per un momento ho creduto che tu e io… Lo vede Iddio quello che non farei, ora, per te. Cerca di perdonarmi. Io ti sarò sempre, sempre riconoscente!» / Mario [piangendo]: «Va, va da lui. Non devi avere rimorsi. Ho avuto torto io, a volerti far dubitare. Va da lui. E che tu sia benedetta per l’attimo di felicità che mi hai dato. Non è poco, [a parte] anche in tutta un’intera vita».